mercoledì 28 agosto 2013

in the mirror




 (Foto Martha Micali)



Il cielo incastrato nello specchio, le nuvole veloci, come tutti i suoi giorni. Istanti d'infinito riflessi sulle mani.

C'è una storia scritta sulla mia pelle, incisa nel palmo, un solco leggero.

Sono nata una mattina d'inizio autunno, le foglie dorate, non facevano rumore mentre morivano.
Io piangevo tra le braccia di mia madre, lei aveva una lacrima verde vicino all'occhio sinistro, resina. Lei, grande quercia, respirava piano e io non avevo paura.

Ho calpestato l'erba con i miei piccoli piedi nudi, mio padre sorrideva, in controluce il suo corpo, alto, nero come le foreste. - Brava Sabine, brava piccola mia -

La pioggia ad agosto, gli acquazzoni della mia adolescenza. Il mio corpo come una pianta giovane e inesperta alla ricerca del sole. Dove sei?
Ti ho cercato nella città, nei negozi bianchi, accecati da una luce troppo forte, ti ho cercato nelle vie deserte e immobili. Le statue tacevano, enormi e altere.

Infine un inverno ti ho trovato. Eri diverso da tutti, eri l'acqua del ruscello in piena, eri il sole crudele a mezzogiorno, spietato nella tua forza e nel tuo bagliore.

Annegai con te mille volte. Tu vedevi in me la quiete dell'alba, io vedevo l'orrore esaltante del precipizio. Ci facemmo del male ripetutamente. Il mio corpo conserva le tracce del tuo disprezzo. E poi l'incidente. In un istante la mia vita capovolta, io sono un frammento di me.

 Foto Martha Micali



Un giorno scoprirò il segreto dello specchio, vedrò i corridoi nascosti e le scale, in penombra dentro il vetro. Vedrò la via, il varco impossibile e allora capirò.

Sabine allo specchio raccontava le sue storie bugiarde, le sue gambe ferme per sempre dopo la caduta, dopo lo schianto. Eppure a volte le sembrava di poter ancora sentire la terra sotto di lei, sotto i suoi piedi. Le sembrava di poter ancora correre, come una pazza felice, per le strade sconvolte dal sole. E se si concentrava sul serio ci riusciva. Era lì, il cielo devastato dal vento, lei apriva le braccia. Sapeva volare.



martedì 20 agosto 2013

Ice


“L’amore spesso può far cambiare natura!” spiegò la triglia al granchio, sul banco del mercato. “Se non ci credi ascolta questa storia...”


 

- Ginevra - le sue labbra pronunciavano quel nome lentamente, come se si perdessero in una cantilena antica.

- Ginevra era tutta la mia vita - concluse Lancillotto guardando il vecchio cinese dal largo cappello di paglia.

Il vecchio non dava alcun cenno d’intendere le parole di quel ragazzo dai capelli folti e ispidi, quasi fossero vivi, che lo fissava al di là del banco. Nevicava ed era notte. Il quartiere orientale però era affollato come sempre e le luci lontane dei neon parevano lacrime di mare.

  Ziang, così si chiamava il cinese, mescolò i gamberetti rosa nella padella di alluminio; il vapore ne usciva a tratti e quasi sembrava nebbia.

  Lancillotto alzò lo sguardo e Ziang si accorse che aveva del ghiaccio su un sopracciglio, come un ricamo o un arabesco di cristallo.

- Non posso più aspettare! - gridò. Ziang parve svegliarsi di colpo.

- Io la vado a liberare, hai capito? -

 

     Il cammino si apriva lento davanti a lui; la strada era ghiacciata, Arturo, il suo fido destriero, non poteva andare al galoppo. I suoi zoccoli passavano sull’erba ai lati del sentiero e l’erba si spezzava, morta sotto la crosta del gelo.

- Ehi cavaliere! - una voce si intrufolò nel silenzio. Lancillotto si voltò, non si era neanche accorto di quel contadinetto che lo guardava a poca distanza, nel campo deserto.

- Hai per caso bisogno di uno scudiero? - Lancillotto arcuò un sopracciglio. Il ragazzo si avvicinò e si tolse il cappellaccio umilmente, gli usciva il fumo dalla bocca.

- Io sono Ser, detto Pin, ed ho sempre sognato di combattere, di andarmene via di qua, da questa terra sterile e morta... E so usare comunque un po’ tutte le armi sa! E poi sono del luogo e ti potrò aiutare! Conosco un mucchio di scorciatoie! - Lancillotto lo squadrò: Ser era vestito di stracci ed era molto magrolino, ma aveva gli occhi ingenui, neri come la terra bagnata e poi il cavaliere aveva così voglia di raccontare a qualcuno la sua avventura che lentamente annuì.

 
 Pin di Valerio Basili


  Ser, detto Pin, aveva un vecchio motoveicolo arrugginito, pieno di leve, molle, ammortizzatori che a spirale s’incastravano tra di loro, e poi due tubi di scappamento enormi. Non si sapeva, per la verità, come facesse a procedere con un simile marchingegno, ma in quell’epoca la meccanica, l’elettronica, la chimica, sapientemente utilizzate, facevano prodigi... Il ragazzo infatti, prima di partire, aveva fatto cadere qualche goccia verdognola e densa nel motore. - E’ la linfa! - grugnì sorridente e così il cavaliere si accorse che aveva tutti i denti neri, marci.

 

- Conosci Ginevra? - chiese Lancillotto, mentre procedevano. Questi scosse il capo energicamente.

- E’ la donna più bella della terra, ma non è mia moglie, è moglie di un altro... Di un uomo potente...-  Pin lo fissava e pareva assorto in quei suoi occhioni umidi. Il cavaliere era già innamorato. Pin sospirò perché era una ragazzina e il cavaliere non se n’era neanche accorto. 

  La Gorra era la fortezza più inespugnabile dell’Est. Le torri s’innalzavano nere, attraversate da vene di acciaio puro, i bastioni si ergevano sullo strapiombo, dove nuotavano, in un largo fossato, gli alligatori.

  Ginevra era appoggiata alla finestra e con le mani lunghe e pallidissime toccava nervosamente le inferriate, nere anch’esse e contorte come rovi fossilizzati. Sbuffava e poi faceva freddo in quel palazzo! Andava ad attaccarsi al termosifone che era sempre tiepido... Ma continuava a sbuffare. Non capitava mai niente lì. E sognava la città, con le sue vie piene di traffico, di fumi, di persone diverse, di odori speziati, forti. Ginevra aveva 17 anni, ma sembrava ancora più piccola; aveva il naso minuscolo, le labbra capricciose, le sue sopracciglia erano come ricami arcuati castani. E i suoi capelli erano lunghissimi, avvolti in decine di trecce scure. Si guardava in uno specchio coi bordi percorsi da venature verdi, segni di frattura, e con un rossetto rosso sangue tracciava contorni sbagliati alla sua bocca. Improvvisamente lo morse e lo sputò.

- Sembra un dito tagliato! - si diceva da sola e rideva, rideva molto sguaiata con quel moncherino di rossetto che sbavava sangue sul ripiano, anch’esso fatto di cristallo. E s’incantava... I suoi occhi si fissavano su quell’immagine e sfocavano tutti i contorni delle cose.

 
 

  Rivedeva così Tristania, la grande città, rivedeva i palazzi antichi, con le decorazioni barocche incrostate di nero, rivedeva le finestre enormi, vuote che a tratti si aprivano, con un tonfo sordo di vetri. E rivedeva ancora una volta lui nei bassifondi, mentre sorseggiava un whisky e la guardava. Ginevra non aveva mai visto uno sguardo simile. Fu presa quasi da un raptus per quel ricordo, la sua faccia si raggrinzì, le sue mani si chiusero nervosamente. Le unghie nel palmo facevano un po’ male. Doveva risentire tutta la storia e del resto, per lei ora, non c’era altro che quello. Si rilassò e iniziò a raccontare tutto allo specchio.


 
- Pioveva - bisbigliò con la sua voce acuta - ed ero scappata un’altra volta da casa. Mi ero messa i tacchi alti e una parrucca arancione perché avevo voglia di apparire più  bella di com’ero in realtà e poi, comunque, mi cercavo e non sapevo quale fosse la mia identità. Rivedo i miei stivaletti di velluto marrone sul marciapiede lucido di acqua e risento i miei passi... Avevo voglia di trasgredire, osservavo le pareti annerite dai fumi, cercavo luci nelle case, musica, parole e voci, rincorrevo golosa ogni forma di vita. E finalmente avevo scorto una porta illuminata di azzurro-acqua che mostrava una scala in discesa. I gradini erano di pietra, sembravano scavati nel tufo di qualche vulcano sotterraneo. Là sotto c’era un locale con poche persone, qualcuno ai tavoli, qualcun altro al bancone.

 - Dove mi trovo? - mi dicevo ed ero elettrizzata. Un uomo di colore suonava il sax su un palchetto ed io osservavo il suo strumento e quasi mi sentivo diventare musica. Ma poi... - e qui Ginevra si fermò per un istante - Poi un qualcosa mi turbò, mi voltai a destra, lentamente e vidi un ragazzo dai capelli folti e scuri che mi fissava. I suoi occhi erano come smarriti, incerti, eppure taglienti. I suoi occhi parevano ora solchi, ora pupille nere di corvo. Di fianco a lui c’era un altro uomo, più robusto, col volto squadrato: anch’egli mi guardava, ma in modo scettico, scuotendo il capo e tirandogli gomitate. Io so cosa gli diceva - Lasciala perdere! Non vedi che è una bambina! -

  Ma egli ormai era perduto... - sussurrò la ragazza e la sua voce quasi parve annegare nella sua gola. Tirò indietro la testa e socchiuse gli occhi... Rivide Lancillotto che posava la pesante spada di fianco a Parsifal e si muoveva verso di lei.

- Ne vuoi - disse porgendole il suo bicchiere.

Lei annuì e bevve tutto il suo whisky, di colpo, e poi lo guardò sfrontata.

 
 Lancillotto di Valerio Basili


- Lui è stato, per me, l’errore - spiegò allo specchio Ginevra, ed il suo occhio sinistro parve un opale incastonato nel suo viso, umido.

 

- La nostra storia era sbagliata in partenza - spiegò Lancillotto al suo scudiero, mentre tentavano di accendere il fuoco per la notte - E l’avevo capito subito... Anche quella prima sera, nella Città Vecchia... Perché aveva sul viso un segno trasversale, come l’impronta di un artiglio: sentii che era, a me, proibita. Ma quella notte non capitò nulla tra noi... Parlammo poco e ci osservammo a lungo, attraverso quelle luci incerte. Ti sembrerà strano Ser, ma io sapevo che l’avrei rivista. -

  La voce del cavaliere era calda e conservava in sé un’intonazione epica. Pin lo guardava attraverso la fiamma: lui era un’immagine scura e dietro, un pruno dai rami contorti e neri era come la ramificazione dei suoi capelli. Pin rabbrividì.

- La rividi a casa del suo nuovo marito: ovvero del mio padrone - e qui il suo parlare divenne per un istante stonato.

- No! - mormorò Pin.

- Ginevra scendeva lentamente le scale del suo appartamento, molti non avrebbero di certo visto in lei la ragazzina dalla parrucca rossa, ma io sì...

Aveva un abito attillato, viola e verde con scaglie di serpente, e i suoi capelli erano scuri, avvolti in un complicato fermaglio di pietre dure.

Il Signore stava seduto al suo tavolo di marmo nero e batteva col dito medio il piano. Lei seguiva il suo ritmo, mentre faceva quegli scalini. Avevo sempre venerato quell’uomo: in quel momento invece mi accorsi che l’odiavo. E odiavo quel suo anello di platino che, come una serpe, stringeva il suo dito più lungo, rosso e grasso.

Ginevra, quando si fu avvicinata a me, incominciò a balbettare e i suoi occhi si riempirono di ombre e luci che si muovevano. –

  Pin si era così immedesimata nel racconto che non sentiva quasi più freddo. Il piccolo focolare che era riuscita ad accendere era un misero bagliore rosso nella notte, ma ecco che, ascoltando Lancillotto, quella modesta luce si allargò e Pin vide la stanza illuminata a candele del re e della regina, scorse il riverbero delle squame sul corpo di lei e il suo viso, minuto sotto quella massa di capelli e sassolini rocciosi.

- Fu una cena terribile per me! – mormorò lui  – c’erano tutti i cavalieri, tutti attorno alla grande tavola nera, ed io, poco distante da lei, guardavo il piatto con i calamari annegati in un sugo di muschio, pieno di conchiglie vuote che si riempivano di gocce verdi e sentivo che anche i miei occhi erano umidi… Non dissi una parola, e lei neppure. Così: circondata dal chiasso dei discorsi altrui in un istante lei si alzò e mormorò soltanto – Con permesso –

 La seguii dopo qualche momento spiegando che dovevo andare in bagno; uscii dal salone dove le ombre parevano liquide e in un anfratto, al buio, la vidi.  –Ssst – fece lei.    Io mi nascosi nella sua tana mentre lei si toccava nervosamente i capelli. Staccava dalla sua criniera le pietre verdi e poi le guardava con gli occhi vivi pieni di riflessi e pagliuzze d’oro. La mia mano sfiorò la sua gemma più grossa. Lei rabbrividì. Io allora la strinsi più forte, fino a che le sue asperità mi fecero male. A Ginevra pareva mancasse il respiro.

– Ma – fece Ser, corrugando la fronte scura.

- Così non vi siete mai baciati!? –

Lancillotto sorrise – Certo… Da allora diventammo amanti –

- E il tuo padrone? –

  Il cavaliere gettò un sasso nel fuoco con ira e Pin si impaurì vedendo volare mille scintille nell’aria. – Ricordati – ringhiò Lancillotto con una voce sotterranea, che non pareva neanche sua  – che io non ho padroni! –

 

 

  Lancillotto e il suo scudiero procedettero per giorni e giorni, attraverso sentieri tra i campi grigi, foreste dagli alberi morti e piccole città… Ognuno di questi paesi assomigliava a Tristania: qua e là un orologio antico, una piazza, un palazzo, richiamavano dolorosamente la metropoli, quasi fossero un riflesso di essa in uno specchio opaco. Il cavaliere ogni tanto s’incantava nel fissare un qualche particolare, ma poi subito si scuoteva e spronava Arturo.

  Lancillotto era diventato sempre più silenzioso e Pin, smaniosa di vivere, talvolta si annoiava anche con lui, come coi suoi fratelli quando andava nelle campagne, per il raccolto. Eppure non riusciva a lasciarlo andare per conto suo… Si rendeva conto, ora dopo ora, che anche il suo silenzio o i suoi modi bruschi da cane rognoso, le erano diventati unici e indispensabili.

 

- Arturo! – gridò una mattina Lancillotto.

- Che hai! –

Pin si voltò e si accorse che il cavaliere era indietro.  Il cavallo era bloccato. Lancillotto scese e provò a tirarlo dal muso. La nebbia si addensava e, qua e là, emergevano dal bianco di perla rami di meli selvatici. Pin si avvicinò e vide il volto di Lancillotto indurito e più scuro come una corteccia.

- Cos’è successo? – gridò con la sua voce da gazza.

Il giovane alzò semplicemente la palpebra ad Arturo, ma l’occhio era solo più una sfera bianca, asciutta.

Agitato allora diede un calcio al ventre del destriero.  - No! – gracchiò Pin mentre dalla pancia usciva un filo di olio tiepido.

 

     Ser con i suoi guanti rotti, da cui sbucavano le dita, provò a svitare i bulloni che chiudevano il ventre maculato, ma all’interno gli ingranaggi erano corrosi e una patina di gelo aveva fossilizzato i vasi sanguigni e il cuore che sembrava, a quel punto, una prugna seccata in una ragnatela di neve.

 

- Aiutami a scavargli una tomba – sussurrò Lancillotto- E poi vai via, sii libera e non tornare indietro, se non ti va – Pin allargò i suoi occhioni neri, le sue labbra tutte screpolate dal freddo, rimasero storte per un istante. Lui alzò lo sguardo e le sorrise piano.

Si alzava la tormenta quando i due ebbero terminato di seppellire Arturo. Fiocchi di neve vorticavano in gorghi concentrici e anche gli alberi sembravano ormai solo più carcasse legnose.

- E’ distante la Gorra? – fece Ser.

- No… - mormorò il cavaliere

- Be’ allora voglio venirci anch’io! – protestò lo scudiero con un’espressione da scoiattolo.

Ripartirono solo più con la vecchia moto di Pin, tutta molle e bulloni e, anche se ormai era quasi notte, non si fermarono.

 
 Ginevra di Valerio Basili


     Il potente Artù aveva indetto un ricevimento per quella sera, erano stati invitati tutti i combattenti eccetto Lancillotto. Si sarebbero anche presentati i funzionari e gli addetti ai servizi speciali. Nel castello quel giorno, quindi, c’era fermento: le serve lucidavano il grande pavimento della sala, i cuochi erano già tra le pentole ribollenti, i camerieri andavano di qua e di là, agitatissimi.

  Il re era nella sua stanza semibuia davanti al suo schermo televisivo incassato in una parete di lava nera. Le tende di velluto erano abbassate e lui si toccava nervosamente il suo anello: un serpente di platino che soffocava il suo dito medio, ma no, non poteva toglierselo. La serpe aveva in bocca una pietra nera senza riflessi.

- Ginevra – la chiamò lui, con una voce rauca

- Perché non vieni un po’ qui con me? Cambiamo programma se ti va –

Lei spuntò da dietro le tende, con una mossa agitata, e si avvicinò a suo marito: sembrava sua figlia tanto era minuta. Aveva la vestaglia di broccato rosso scuro e si era truccata, di nuovo, in modo pesante. Del rimmel le colava persino un po’ sulla guancia. Lei gli accarezzò la folta barba con gesti rapidi e sgraziati, lui allora, deluso, la spinse via facendola cadere per terra, sul tappeto persiano.

C’era un arabesco blu cobalto su fondo rosso, Ginevra lo fissò a lungo dicendo a sé “dormi bambina dormi …Non pensare a niente…Dormi e ti ritrovi pura come il mattino di perla” ma appena chiuse gli occhi, pianse.

 

Quando Lancillotto entrò nella sala illuminata, con a fianco un ragazzo di campagna tutto stracciato, molte voci si zittirono e gli sguardi andarono al padrone del castello seduto in un angolo buio. Ma egli non disse nulla. Ginevra era nascosta sotto il tavolo, non si sa per quale strano motivo, e quando udì quel silenzio improvviso sbucò da sotto la tovaglia smerlata, con il cuore che le batteva fortissimo.

- Non penserete - tuonò ad un tratto la voce di Artù - Lancillotto di presentarvi qui stasera, senza che io mi ritenga offeso - Pin rabbrividì e per un istante le parve che  i presenti avessero addosso veli spessi di ragnatele. Lancillotto aveva rughe più profonde vicino agli occhi.

- Immagino che voi siate qui per duellare - continuò stancamente Artù.

La musica venne alzata di volume: era un ritmo elettronico cadenzato, i paladini si guardarono tra loro, a disagio, Pin fissava sgomenta lo stemma della Gorra: un viso enorme di gatto attaccato in mezzo alla parete centrale, i cui occhi di ambra vibravano alla luce azzurra dei fari.

- Combatterete con la mia nuova creatura - spiegò il Re prendendo un telecomando che aveva in tasca.

 

Dalla scalinata di pietra scendeva a passi lenti un cavaliere con un’armatura porosa che pareva fatta di pomice.

- No... No....No... - gridò come una bambina Ginevra, camminando a quattro zampe verso Lancillotto e lui solo allora la vide! La fissò e i suoi occhi sembravano incrostati di resina.

- Portate via la regina! - ruggì Artù, alzandosi dal suo trono e quattro servitori la presero di peso mentre lei si divincolava come una tarantola aliena, dai tessuti d’oro che frusciavano e si strappavano qua e là.

Lancillotto allora, sguainò la sua vecchia spada e si lanciò contro al cavaliere senza nome, urlando come un pazzo.

 

  Il combattente del re era molto abile e poi la sua spada mandava bagliori azzurrognoli come onde marine nel piombo, ogni volta che era colpita; ciò stregava quasi l’avversario.   Ser era accucciata in un angolo della sala e tremava, i paladini erano preoccupati, Parsifal intimava al re di essere clemente col suo ex amico.

- E sia! - esclamò ad un tratto Artù e l’unica cosa che si vide fu la sua mano grande, squadrata con l’anello nero. Il cavaliere di pomice si bloccò, ma Lancillotto era ancora preso dal suo slancio e così gli mozzò la testa.

- Colpo scorretto - si udì da più voci - colpo scorretto! -

L’elmo era rotolato per qualche metro e aprendosi aveva mostrato un volto di donna con fili d’argento che le partivano dalle orecchie: era una copia di Ginevra. - Cos’ho fatto mio Dio! - pensò Lancillotto che non riusciva più a collegare le cose. Ma la testa tagliata, con l’elmo roccioso, aveva cavi e conduttori elettrici che le uscivano dal collo... E poi una patina di liquido scuro, denso, che si allargava sul pavimento lucidato a specchio.

 

  Pin trascinava il suo motoveicolo nella nebbia. Lancillotto la seguiva lento, a passi pesanti. Pin pensò che egli dovesse avere allucinazioni, perché talvolta s’illuminava  trasaliva o si voltava di colpo. Ma, ad un tratto, fu lei a gridare, spaventata, e per poco non fece cadere la sua moto. A pochi passi da loro, sul bordo del sentiero innevato, c’era una statua di ghiaccio a grandezza naturale, piena di cristalli verdi e grigi come vetro. Era Ginevra, bella come un insetto dentro l’ambra.

“Io ho seguito i tuoi sospiri.
                                  Ho visto i fiocchi farsi merletto
                                    la neve farsi lacrime
                               Io ti ho inseguito per tutte le strade
                                 cercato in ogni ruscello
                                 in ogni riva e anfratto
                                             Ma tu
                                              eco
                                ti sei perso nelle grotte cave.”

 

Lei gli disse coi suoi occhi che parevano sciogliersi in rugiada.

- No - bisbigliò lui - non è morta - e i suoi capelli erano mossi dal vento.  Pin era incantata davanti alla bellezza di quella fata ghiacciata e non sapeva se crederci. Si sfregava gli occhi. Del muco le usciva un po’ dal naso. Ma poi udì come una musica.

                               

“L’arabesco cobalto su fondo rosso”

 

e s’impaurì, indietreggiando di qualche passo.

Lui invece non si spostava ed anzi sfiorava con un dito le labbra bianche di lei, al di là delle vene azzurrine di ghiaccio.

    
 Tristania. La città vecchia era un pullulare di voci sommesse. Il piovischio imperlava le bancarelle sparse, le cupole delle moschee, i cappelli a larghe falde dei cinesi... Ziang rimescolava assorto il suo pentolone d’alluminio. Era riso al curry e il vapore si alzava in fumi densi. Un esserino magro e stracciato gli si avvicinò. Aveva gli occhi incrostati di secrezioni verdi, doveva avere una pessima congiuntivite.

- Cerco Ziang! - esclamò il ragazzo.

L’orientale annuì.

- Sono Ser - piagnucolò l’altro - conoscete Lancillotto, vero? -

L’odore di spezie era fortissimo e una triglia fissava curiosa, con la sua bocca ramata aperta, Pin.

- E’ rimasto solo questo del cavaliere! - gridò quasi Ser e porse al vecchio cinese un lastrone di ghiaccio con dentro un ramo di melo selvatico, come una vena o un lampo.  Ziang allargò le sue pupille socchiuse.

- e questo di Ginevra - mormorò Pin, mostrandogli un’altra lastra trasparente con all’interno un grumo scuro di capelli attorno ad una pietruzza rocciosa.

Pin piangeva e non riusciva a smettere, guardando la triglia con le sue squame lucenti e il viso rugoso dell’anziano.

 

                                  

  La cattedrale di Tristania era minuta e scura, nascosta quasi tra i palazzi barocchi pieni di angeli anneriti e dalle ali enormi e pesanti. Il rosone centrale da tempo era rotto: mancavano due pezzi che non si riusciva ad inserire e non se ne capiva il motivo. Un giorno un pezzente di campagna portò due lastre ghiacciate da chi sa dove; combaciavano e il ferro battuto le inglobava perfettamente. Talvolta, alzando gli occhi si potevano distinguere perché due masse si muovevano al loro interno e tentavano di avvicinarsi l’uno all’altra. Per sempre divise, per sempre vicine.

 

 

 

 

 

venerdì 16 agosto 2013

dentro a un racconto

E' quello che mi capita, scrivere e entrare di là, in uno spazio altro. Vivere le emozioni dei miei personaggi, creature fatte d'aria. Vibrare con loro, soffrire, pensare con loro. E nella vita reale, talvolta, essere trafitta da un ricordo, da un istante vissuto da loro.

Correre a perdifiato, in un campo di grano e avere ancora 16 anni; innamorarsi e avere paura, come a 16 anni, dell'amore e della morte. Così vicini, così diversi.




martedì 6 agosto 2013

Alta marea


Lor aprì gli occhi. Tutto era diverso. La sua stanza era un grande acquario dalle pareti scure, appannate. Respirava più forte. Le sue mani strinsero le lenzuola. Il suo viso giovane era percorso da brividi e da gocce trasparenti di sudore e di acqua salata. Non riusciva ad alzarsi.

 Pesci blu, dall’ombra dorata, guizzavano davanti a lui. Murene lucide e sinuose danzavano, lente, nella quiete della camera. Lò era emozionato ed esausto.

 



Lei era comparsa all’improvviso, eppure Lor non si stupì. Era come se l’aspettasse da tanto tempo. Aveva capelli setosi del colore del mare in tempesta e occhi annegati. Doveva aver pianto. Ma in quell’istante sorrideva, incredula.

- E’ tutto un sogno – si disse lui, perché l’amica aveva il corpo coperto di squame argentate e una lunga pinna umida al posto dei piedi.

Non potevano parlare, l’acqua avrebbe soffocato le loro voci, ma si capirono. Lor le mostrò una conchiglia vuota che sembrava un castello dell’oceano. Linil l’accostò all’orecchio e sorrise.

 

C’era un canto remoto imprigionato nella spirale:

Liberami
Liberami
onda  suadente
Sommergimi

schiuma salata
Insegnami
la strada
che porta ad Atlantide,
la scia del destino,
l’incanto del Dio.

 

Linil aveva piccole pietre bagnate, appiccicate sul viso. Lor fece per sfiorarla, ma si svegliò.

 
La finestra si aprì di colpo con un tonfo. Il vento entrò nella stanza. Lò si alzò dal letto e si affacciò. Il cuore gli batteva fortissimo. Vide dei gabbiani alzarsi in volo, sopra di lui. Le loro ali avevano un riflesso nero, una sfumatura che non ricordava. Il loro grido era come un’antica canzone, un richiamo del mare.