domenica 29 dicembre 2013

fino alla fine del mondo

Ho camminato fino all'alba, i piedi distrutti, le scarpe piene di fango secco. Ho guardato la sagoma delle case, erano rettangoli di buio contro al sole opaco, là in fondo.
Ho camminato piangendo. Non avevo altro che le mie gambe. Mi avrebbero retto ancora?
Lo sapevo che avevo perso tutto, il tuo amore, la mia casa, i miei amici.
Barattando le mie speranze per un po' di gloria.
Sono un uomo o sono un vecchio? Faccio fatica a andare avanti. Un semaforo lampeggia.
É un occhio allucinato, forse anche lui dovrebbe dormire un po' di più.
Il cielo si spezzava in centinaia di nuvole. Ogni nuvola rifletteva un istante della mia povera vita:
io bambino
io che rido a mia madre
le sue mani chiare, come petali
mio padre
la casa distrutta
le pentole sporche
il vento
il vento ha rotto ogni cosa.
Io ragazzo
lei con me
i prati grigi della città
le strade lunghe quando è notte.
Il giorno in cui ho sbagliato tutto
il suo viso stropicciato
le sue labbra che dicono Vattene
le rughe sul mio viso.

Camminerò ancora, fino a che non avrò capito tutto. Camminerò e uscirò da questa periferia, ci saranno i campi e il sole brillerà sul gelo di questa pianura. Fino alla fine del mondo. Laggiù ci sono le colline e tutti i miei ricordi si apriranno. Fino alla fine del mondo. Forse, allora, capirò.


Foto Milena Poggio




lunedì 23 dicembre 2013

Il natale nei primi anni 80

A natale, quando eravamo piccoli, c'era sempre la pubblicità della Coca Cola a rincuorarci. Tutti quei giovani, così carini e vagamente hippy, ci facevano sentire in pace con l'universo. Cantavamo tutti, muovendo un po' la testa come loro e l'atmosfera era fatta. Natale era comunque una festa speciale, a casa nostra c'era un albero con delle palline psichedeliche elettriche. Chissà dove le avevano scovate i miei genitori: erano semisfere colorate con all'interno un liquido che si muoveva creando delle bolle e dei piccoli giochi di luci. Era l'era della disco.

Noi bambini stavamo in casa e giocavamo con le Barbie o i soldatini, a nascondino, a inseguire la gatta o con la condensa sui vetri. Uno dei nemici più spietati dei nostri giocattoli era la lucidatrice, uno strano attrezzo rumoroso che le mamme tiravano fuori quando volevano far brillare i pavimenti. Spesso in quegli anni per terra c'era il marmo, una distesa di frammenti policromi e se ti cadeva qualcosa, auguri a trovarla. A me però piaceva e fingevo di nuotare in quel mare di piccole gocce nere e bianche.






Natale era ritrovarsi con tutti i cugini, quello era il vero spasso. A quell'epoca non esistevano video-games e per forza dovevamo escogitare qualcosa per divertirci. Non era difficile, in fondo. Inventavamo avversari da combattere e ci nascondevamo dagli adulti, le case erano piene di anfratti e di ripostigli.
I nostri genitori fumavano tutti, le stanze erano molto puzzolenti, ma nessuno ci faceva caso. Mio papà suonava i bonghi e due suoi amici la chitarra, non c'era poi così bisogno degli mp3. Le stonature, tra l'altro, erano la parte migliore e sai che risate ci facevamo.
Anche adesso il natale è un momento di festa, basterebbe solo guardare un po' più in faccia chi abbiamo davanti e un po' meno lo schermo dello smartphone. Così, giusto perché è natale.











mercoledì 18 dicembre 2013

Un libro per Natale: Ieri di Kristof



Ieri è un piccolo libro di Agota Kristof, autrice enigmatica e, a mio avviso, molto interessante nel panorama contemporaneo. Ieri è un romanzo, ma è anche un sogno. Sembra scritto in stato di veglia. E' un libro che ho letto parecchi anni fa, ma mi è rimasto in mente come una maledizione o un amore perduto ingiustamente.

Il protagonista soffre di allucinazioni e vorrebbe fare lo scrittore, ma è soltanto un operaio.   Ama Line, creatura misteriosa che compare talvolta nella sua vita, e disprezza Yolande, una commessa che però si prende cura di lui. Ma è la scrittura la vera protagonista del libro: una scrittura violenta e spoglia come nel più famoso Trilogia della città di K.

Ecco l'incipit:

Ieri soffiava un vento conosciuto. Un vento che avevo già incontrato. Era una primavera precoce. Camminavo nel vento a passi decisi, rapidi, come tutte le mattine. Eppure avevo voglia di ritrovare il mio letto e distendermi, immobile, senza pensieri, e di restare sdraiato fino al momento in cui avrei sentito avvicinarsi quella cosa che non è voce, né gusto né odore, solo un ricordo vaghissimo, venuto da oltre i limiti della memoria.

(...) E poi

Ieri sono andato sulla riva del lago. Adesso l'acqua è molto nera, molto cupa. Le sere trascinano tra le onde i giorni dimenticati. Se ne vanno verso l'orizzonte come se navigassero in mare. Ma il mare è lontano da qui. Tutto è così lontano. Credo che presto sarò guarito. Qualcosa si romperà in me o in qualche parte dello spazio. Partirò verso altezze sconosciute. Sulla terra non c'è che la mietitura, l'attesa insopportabile e l'inesprimibile silenzio.

Agota Kristof si definiva "analfabeta" perché non padroneggiava perfettamente il francese, la sua seconda lingua, la lingua in cui scriveva. Eppure c'è della poesia nelle sue frasi secche come rami d'inverno, ma così vive e ricche di linfa.

Da questo libro hanno tratto Brucio nel vento di Soldini... Mi riprometto di vederlo presto anche se le musiche mi sembrano un po' pesanti!

Buona lettura...





venerdì 13 dicembre 2013

l'inverno in una stanza

Ricordo ogni istante di quell'inverno. Le foglie marce, il vento senza tregua, le vie congelate, i vetri rotti sui marciapiedi. Non sapevo che ero solo un ragazzo, mi sentivo uomo, mi sentivo forte e tu eri solo una ragazza tra altre nella mi vita.
Ma i tuoi occhi, così tenaci, la curva incerta del sorriso, la presa sicura delle mani, il modo che avevi di parlare, ostinato, egocentrico, mi catturarono.

E io quell'inverno scoprii che ero fragile e vulnerabile, come il mondo, là fuori.
Tutto sembrava sul punto di cambiare e io dovevo smetterla di recitare. Tu giocavi con me, mi puntavi una pistola immaginaria e sparavi. Io morivo. Morivo. Morivo. Cento mila volte morivo. E tu ridevi. Quando avremmo finito quell'inutile battaglia?

Era l'inverno delle fabbriche chiuse. Era l'inverno degli scontri e della rivoluzione. Era l'inverno in cui noi perdenti credemmo di vincere. E io e te non eravamo altro che fugaci comparse nella vita degli altri. Eppure cercammo di crescere. Io e te, nell'universo dilatato di una stanza, gli alberi abbattuti tutt'intorno e una canzone d'amore per non impazzire.




venerdì 6 dicembre 2013

Prima neve

 

- Selene, dolcissima figlia dei boschi, narrami ancora, ti prego, la tua favola. Raccontami la tua nascita, la leggenda dei tuoi primi istanti di vita -

Selene guarda il ragazzo attraverso il velo bianco di sposa-ragno e sorride. Le sue labbra si increspano.



- Nacqui nel gelo, tu lo sai - la sua voce è fredda e liquida come l’eco delle cascate.
- Mia madre mi partorì nella neve. Era l’alba e nel cielo c’erano lampi di comete che sfrecciavano veloci lasciando scie, brividi. Mio padre, poco distante da noi, gettava sassi, scalciava, graffiava i tronchi degli abeti, perchè sapeva che doveva abbandonarmi. Io piansi, era doloroso nascere. Respirare quell’aria ghiacciata, vedere quel sangue, nero e porpora, nella neve. Mia madre mi avvolse in un panno scuro, pungente. Respirava piano, finalmente; il fumo le usciva dalle labbra screpolate dal vento. Aveva occhi di aquila, dolci nell’angolo esterno in cui si raccoglievano le luci. Sapeva di muschio e di sangue. Aveva le mani ancora sporche di terra e di liquido sacro, mio e suo. Mio padre, dalla barba ispida e selvaggia, mi guardò. Forse avrebbe voluto abbracciarmi, ma non poteva perchè doveva fuggire. Scorsi solo la sua mano, grande e dai segni profondi incisi sul palmo, su di me. Era una carezza, ma io non lo capii e gridai. La neve iniziò a cadere, lenta, senza suono. Mio padre si mise addosso la pelliccia di lupo. Non riusciva più a guardarmi. Mia madre mi abbracciò ferocemente.


 





    Fu così, mio caro Paride, che io venni consegnata alla Dea; nient’altro posseggo di loro che questo breve, eppure vivido, ricordo. E’ per questo, mio giovane amico, che quando scende la neve nella foresta mi trovi assente e muta. Il brillare dei cristalli mi riporta ai miei avi e alle favole che, instancabilmente, costruisco su di loro e per loro. Perciò mi chiamano ‘la arachne’; perchè tesso nella mia mente, infinite volte, i volti delle creature che amo. Ed ogni volta sono diversi. Ogni volta il mio ritratto è incompleto, la mia favola è sbagliata -



Selene tace sotto il suo manto candido, di devota. Paride la guarda, ancora incredulo della sua storia. Selene era una strana vestale. Ma sotto al grande pino Paride si sentì al sicuro, come in una capanna di legno. C’erano solo lui e Selene, nella casa dei rami secchi, e fuori nient’altro che silenzio. Silenzio bianco.