venerdì 17 aprile 2015

Genova 2001. Storia di un'utopia interrotta

Ritornare a credersi popolo?
Per noi che siamo figli di un sogno fallito.

Stanchi dei vostri show
partiamo su un treno blindato, veloce,
verso il deserto.

(Luglio 2001)



Io c'ero a Genova, in quell'estate rovente del 2001. Avevo 26 anni, la vita in bilico e la continua voglia di cambiare le cose.
C'ero a Genova, perché credevo in un mondo migliore, più giusto, più equo; perché pensavo che non fosse normale blindare una città per un summit; c'ero a Genova  perchè pensavo che quello fosse il momento perfetto, lì la mia generazione stava concretizzando il mutamento. Non più gli otto grandi che si siedono alla tavola imbandita per decidere le sorti del mondo e gli altri costretti a tacere, dietro la linea rossa. Di colpo, tutto sembrava possibile.
Poi uccisero un ragazzo. Noi partimmo lo stesso, era il 21 luglio, sabato, il giorno dopo quella morte. Eravamo tantissimi, ma avevamo paura. Molti genovesi ci salutavano, erano con noi. Eravamo tutti così giovani e avevamo negli occhi la luce calda dell'estate.
Il cielo però era troppo azzurro e gli elicotteri volavano sopra di noi.
Ci stavano riprendendo, ci stavano filmando.
C'erano anche dei blindati, come a Baghdad. Noi avevamo solo la nostra voce e i nostri corpi.
Sul lungomare il corteo si interruppe, c'erano stati degli scontri, la polizia ci bloccò, Noi alzammo le mani. Poi iniziammo a arretrare, più avanti c'era una carica. L'aria satura di fumo, il suono acuto delle sirene. Il sangue che pompava nelle orecchie. Corri, corri. Mi dicevano. Non fermarti. Avevo freddo, era una guerra e non me n'ero accorta,

Il giorno seguente dovevo lavorare in libreria, per questo non dormii a Genova. Quando scoprii cosa era accaduto alla Diaz e poi a Bolzaneto, piansi.

 Alcuni sostenevano che ce lo eravamo meritati, che eravamo andati in cerca di guai. Molti non capirono cosa stava succedendo. Molti ci condannarono.

Ora la storia ci insegna che alla scuola Diaz non c'erano i Black Bloc, che qualcosa non funzionò in quei giorni abbaglianti e sconvolgenti.

Forse non è troppo tardi per rileggere quella pagina, per ripensare a quei sogni di giustizia e uguaglianza per tutti i popoli del mondo, per riguardare quelle mani alzate verso il cielo, come una resa, il segno di un'utopia interrotta.


giovedì 2 aprile 2015

La tana del coniglio bianco

Sono fatta di sole e silenzio. La pelle disidratata dall'attesa di un segno. Quanti giorni asciugati, aspettando una risposta.
Mi sento inadeguata, mi sento imperfetta.
Una crisalide che non avrà mai le sue ali.
Osservo il mondo, ma la mia vista è appannata, confusa, distante.
Voi potete anche parlarmi, ma io non vi ascolterò.
Perché non posso ascoltarvi.
Le mie storie sono nel vento, frammenti di me, frammenti di altri mondi in cui ho vissuto per pochi istanti, eppure mi hanno segnato per sempre.
Io sono stata prigioniera di quelle pagine, ma in fondo a chi importa?
Cado giù nella tana del Bianconiglio. Ogni volta è così doloroso, ogni volta perdo qualcosa di me e non so se sia giusto.
Porto i segni di quelle cadute, lividi, ematomi, ferite ancora aperte.
Cosa vedrò questa volta?
Io sono pronta.
Conto fino a tre e volo giù.

    Jean-Claude Bélégou



La tana è un labirinto verticale, non si precipita troppo velocemente, si riesce a sentire il rumore dell'aria mentre cadi.
Piccole mensole scavate nella terra contengono i ricordi di una vita o forse di molte vite.
Le fotografie incorniciate di uomini e donne sopravvissuti alla guerra. Lo sguardo lucente e ingenuo dei vent'anni.
E le storie di mio padre e mia madre, il 1968 e poi la distruzione dell'utopia.
La solitudine della nostra infanzia segreta,
l'adolescenza viola,
l'epoca della fuga.
Chi potrà ascoltare queste parole?
La tana è troppo profonda.
Credo che non arriverò mai alla fine di questa storia.