martedì 1 settembre 2020

La casa delle maschere

La casa delle maschere era una costruzione solitaria, in cima alla collina. 
Lì abitava Josef, un uomo bizzarro che sapeva essere più persone contemporaneamente. T'incantava con il suo tono ora suadente, ora allegro, ora perduto e dannato. 
Josef era un attore, ma la sua carriera era in declino, era anziano, gli affidavano soltanto alcune parti minori in qualche rappresentazione teatrale. 
Dava lezioni di recitazione, per questo l'avevo conosciuto quell'estate.
Appena entrai nella casa delle maschere mi sentii a casa, come se avessi ritrovato una parte di me dimenticata. 
La mia infanzia, mio padre, qualcosa che si era inabissato per sempre.

Josef mi mostrò le maschere di legno appese alle pareti.
C'era l'uomo drago spietato e crudele, c'era il padre comprensivo e attento, c'era l'amante con sfumature rosse al tramonto, c'era il diavolo, un volto nero senz'anima.
Amava indossarle perchè temeva se stesso, temeva di guardarsi per quello che era. E forse non si piaceva, forse si disprezzava. 
Ecco che allora cambiava la voce e diventava il saltimbanco, il teatrante di strada e io sorridevo e lui anche. 




Gli piaceva la mia volontà, la mia tenacia e gli piaceva la mia purezza. 
Volevo essergli amica, volevo accompagnarlo, dargli la mano. In mezzo alla corruzione di quei giorni trovava tutta questa luce insolita e ne era attratto. 

Talvolta percepivo un filo luminoso che mi collegava a lui, anche quando non lo capivo e le sue recite mi sembravano crudeli o oscure.

Non ero la sola allieva, eravamo in cinque, ma io ero quella che più si ribellava al suo silenzioso dispotismo. 
Per questo lui mi guardava con curiosità e so che segretamente, in una parte nascosta di sè, mi voleva bene.

Le lezioni finirono, iniziava l'autunno. Temporali improvvisi e violenti allagavano il giardino della casa, osservavo le gocce d'acqua che scivolavano sui petali delle rose e piangevo, senza motivo.

Dovevo tornare a casa, dovevo crescere, abbandonare i miei sogni, accettare il primo lavoro che mi avrebbero offerto, dimenticare la magia?

No. La magia sarebbe rimasta per sempre dentro di me, come una luce costante, in fondo alle pupille.






Josef mi accompagnò alla porta, aveva un sacchetto di carta in mano, me lo porse. Era la maschera più oscura, la maschera nera del diavolo.
- Portala via, disse 
- Non m'interessa più, fanne ciò che vuoi - 
- Ne costruirò altre, più belle -
Sorrise dolcemente.
- Grazie - dissi. E mi sentii leggera e pesante al tempo stesso, come la pioggia in quel momento.
Non aprii l'ombrello, non ce l'avevo. 
Me ne andai sotto l'acqua, lasciandomi bagnare, lasciando che si bagnasse anche la maschera nera.

Arrivata a casa riabbracciai i miei fratelli, i miei genitori.
E mostrai loro ciò che mi aveva lasciato il maestro Josef. 
Ma il nero se ne era andato via, era tornata di legno, non mi avrebbe fatto male, non avrebbe fatto male più a nessuno.
I miei fratelli vollero dipingerla. Diventò la maschera del destino, con tracce di cielo e di stelle cadenti.
Quando l'indossavamo la nostra voce cambiava, e si alzava sempre il vento.