lunedì 21 dicembre 2020

Petali sulla pelle (canzone del Natale mancato)

 Tutto ciò che ho perso, in questo Natale mancato, è qui.

Polvere di ghiaccio sulle mie mani stanche

e lei, come una luce che si affievolisce e infine si spegne.

Lei, i suoi occhi, il suo sorriso,

il suo corpo, 

il suo desiderio.

Petali bianchi sulla pelle, 

cristalli di neve nei suoi capelli, 

poesie sussurrate

e infine 

il silenzio.

Lei era, lei è ancora, una speranza tenace.

Crescono fiori d'inverno sulla sua cicatrice,

fiori rari, sconosciuti.

Lei li accarezza e mi sorride

e io torno a sperare.

Torno a vivere.

Perché l'inverno finirà, 

la morte lascerà piccoli semi nella terra.

A primavera io e lei, 

le nostre mani,

i nostri occhi, così nuovi, 

così diversi.

Non ci sarà più bisogno di parlare.


 Zemiotik


  



martedì 17 novembre 2020

Sorella, amore mio

 

Sorella, è arrivato il vento e 

ci ha colpito in faccia.

Senza tregua, sorella, amore mio.

Senza farci respirare, 

ci siamo chiusi in casa 

aspettando

qualcosa che non sarebbe arrivato.

Il vento, dolce e crudele, 

nelle città, 

nei campi, 

nei deserti delle strade spopolate.

Il vento, 

ripetimi il suo nome sorella, 

perché io l'ho dimenticato.

Tu lo ricordi?

Mi accompagni in silenzio, 

mentre le vie diventano buie, 

le finestre si chiudono.

Tu sai quando finirà la tempesta?

Lo sai, amore?

Se mi vedrai piangere, 

sappi che poi passa, 

poi passa.

(Me lo diceva sempre la nonna, 

mentre muoveva le sue dita sul pianoforte).

Poi passa.

Sorella sorreggimi perché non conosco più questa città,

le piazze, i vicoli,

c'è troppa polvere e silenzio.

Indicami la strada, 

amore mio.

Indicami la strada.

 Annie Spratt






sabato 17 ottobre 2020

Stringimi le mani

Stringimi le mani, 

sto per cadere, ma so che qualcosa di te sarà per sempre in me.

Un germoglio che è cresciuto nel tempo (sferzato dalla pioggia dell'inverno, sopravvissuto all'aridità dell'estate) è qui, dentro di me, ancora forte, ancora vivo.

Ogni giorno combatto e spesso perdo, ma so che ci sei.

Il corpo si sgretola lentamente, in quest'autunno che fa paura.

Donne, uomini, bambini,

tutti alla deriva 

prigionieri di qualcosa di invisibile.

Donne

uomini

bambini

E io e te, con le catene ai polsi e la bocca nascosta,

solo gli occhi sono rimasti,

gli occhi, 

per guardarti, 

per amarti,

e accarezzarti piano.






martedì 1 settembre 2020

La casa delle maschere

La casa delle maschere era una costruzione solitaria, in cima alla collina. 
Lì abitava Josef, un uomo bizzarro che sapeva essere più persone contemporaneamente. T'incantava con il suo tono ora suadente, ora allegro, ora perduto e dannato. 
Josef era un attore, ma la sua carriera era in declino, era anziano, gli affidavano soltanto alcune parti minori in qualche rappresentazione teatrale. 
Dava lezioni di recitazione, per questo l'avevo conosciuto quell'estate.
Appena entrai nella casa delle maschere mi sentii a casa, come se avessi ritrovato una parte di me dimenticata. 
La mia infanzia, mio padre, qualcosa che si era inabissato per sempre.

Josef mi mostrò le maschere di legno appese alle pareti.
C'era l'uomo drago spietato e crudele, c'era il padre comprensivo e attento, c'era l'amante con sfumature rosse al tramonto, c'era il diavolo, un volto nero senz'anima.
Amava indossarle perchè temeva se stesso, temeva di guardarsi per quello che era. E forse non si piaceva, forse si disprezzava. 
Ecco che allora cambiava la voce e diventava il saltimbanco, il teatrante di strada e io sorridevo e lui anche. 




Gli piaceva la mia volontà, la mia tenacia e gli piaceva la mia purezza. 
Volevo essergli amica, volevo accompagnarlo, dargli la mano. In mezzo alla corruzione di quei giorni trovava tutta questa luce insolita e ne era attratto. 

Talvolta percepivo un filo luminoso che mi collegava a lui, anche quando non lo capivo e le sue recite mi sembravano crudeli o oscure.

Non ero la sola allieva, eravamo in cinque, ma io ero quella che più si ribellava al suo silenzioso dispotismo. 
Per questo lui mi guardava con curiosità e so che segretamente, in una parte nascosta di sè, mi voleva bene.

Le lezioni finirono, iniziava l'autunno. Temporali improvvisi e violenti allagavano il giardino della casa, osservavo le gocce d'acqua che scivolavano sui petali delle rose e piangevo, senza motivo.

Dovevo tornare a casa, dovevo crescere, abbandonare i miei sogni, accettare il primo lavoro che mi avrebbero offerto, dimenticare la magia?

No. La magia sarebbe rimasta per sempre dentro di me, come una luce costante, in fondo alle pupille.






Josef mi accompagnò alla porta, aveva un sacchetto di carta in mano, me lo porse. Era la maschera più oscura, la maschera nera del diavolo.
- Portala via, disse 
- Non m'interessa più, fanne ciò che vuoi - 
- Ne costruirò altre, più belle -
Sorrise dolcemente.
- Grazie - dissi. E mi sentii leggera e pesante al tempo stesso, come la pioggia in quel momento.
Non aprii l'ombrello, non ce l'avevo. 
Me ne andai sotto l'acqua, lasciandomi bagnare, lasciando che si bagnasse anche la maschera nera.

Arrivata a casa riabbracciai i miei fratelli, i miei genitori.
E mostrai loro ciò che mi aveva lasciato il maestro Josef. 
Ma il nero se ne era andato via, era tornata di legno, non mi avrebbe fatto male, non avrebbe fatto male più a nessuno.
I miei fratelli vollero dipingerla. Diventò la maschera del destino, con tracce di cielo e di stelle cadenti.
Quando l'indossavamo la nostra voce cambiava, e si alzava sempre il vento. 






venerdì 7 agosto 2020

L'ultima notte

Eravamo ancora bambini, ma stavamo crescendo. L'estate era eterna per noi. 

Io e Cristian eravamo diventati amici, anche se lui aveva tre anni più di me. Le sue mani sapevano costruire giochi, coltelli, bastoni per la battaglia. 

Il suo sguardo era spesso nascosto da cappelli, amava l'ombra e a nascondino era il più bravo di tutti. Io invece amavo il sole e la luce abbagliante dell'estate.

Ero chiacchierona e gli raccontavo mille storie inventate. Lui sorrideva, ma restava spesso in silenzio e io non capivo cosa gli passasse per la testa.

Cristian amava il legno, lo sapeva lavorare, incidere, levigare. 



Era il 15 di agosto, la fine dell'estate per me. Il giorno dopo sarei partita, forse non ci saremmo rivisti più. Trovavo tutto questo crudele e ingiusto. Spiavo i suoi movimenti lenti mentre camminava, il suo sguardo, il suo sorriso ad un tratto triste. 

Arrivammo al mare; era buio, immenso, una distesa d'acqua sussurrante. 

Pensai che la vita a volte era dolore, perchè non sentirlo più, non vederlo, non potergli parlare ancora era davvero intollerabile.  

- Questo è per te - mi diede una piccola statua di legno. Era un angelo, mi assomigliava vagamente. Sorrideva, ma gli occhi sembravano guardare lontano, oltre il mare. 

- Grazie Cristian, io ti porterò sempre qui - e gli indicai il cuore. Il cuore di bambina che si spezzava pian piano.

Ci abbracciammo forte.

E piangemmo. 

Il mare ci rassicurava come un padre benevolo, le stelle stavano zitte, lucenti e bellissime. 




Ancora oggi conservo l'angelo di legno di Cristian e mi piace pensare che un giorno, forse da vecchi, rimasti soli, ci ritroveremo davanti al nostro mare. Lui avrà un cappello, io gli parlerò di qualche avvenimento fantastico parzialmente vero, in gran parte inventato.  Ci riconosceremo. 

Avremo tutta una vita da raccontarci.



giovedì 9 luglio 2020

Oltremare

Là dove il blu è più profondo, dove si perdono anche i ricordi, lì voglio trovarti.


Sofia si era persa per J. Disegnava il suo viso, il suo profilo, la forma del suo naso, l'ombra imperfetta, sempre diversa, sul suo corpo, sulle sue spalle.
Ma lui era lontano, oltre la città, oltre i campi e le periferie.
Là dove finisce la terra e inizia il mare.

Il viaggio fu lungo e crudele. Sofia si perse più volte nei vicoli del paese. Un uomo dai capelli rossi iniziò a seguirla.
Le strade diventavano sempre più strette, le finestre si chiudevano. Chi poteva capirla? Chi poteva sentirla?

L'uomo la raggiunse, le chiese chi era, dove andava? Era una straniera?
Sofia gli disse - Sì, sono una straniera, ma non t'importa dove vado -
Lui le strinse i polsi, ma lei lo morse con rabbia.
- Lasciami stare! - Urlò - so difendermi -
- Non andrai lontano, strega. Questo mondo è maledetto e presto finirà - Il suoi occhi bruciavano, ma in fondo c'era solo più uno stanco dolore.

Sofia arrivò sulla spiaggia. Il vento l'abbracciava, come se fosse tornata a casa.
I gabbiani gridavano nel cielo sterminato, il mare era agitato, dal grigio, al verde al blu.









Lui abitava nell'ultima casa prima del nulla.
Era una casa di legno, la sabbia entrava nelle fessure.
Lei bussò.
Si preparava un temporale; un tuono, un altro ancora.
J. aprì la porta e parve sorpreso.
- Sofia entra, che piacere vederti -
Lei si sentì protetta, come all'interno di una conchiglia sepolta nel mare.

Lui le preparò un tè. I suoi gesti erano lenti e dolci, come chi ha tanto tempo per pensare e per sentire il rumore dell'acqua. 
Sofia gli parlò del suo viaggio, dell'epidemia, dell'uomo dai capelli rossi, ma con lui tutto le sembrò meno violento e sporco, come se lui potesse toglierle un velo davanti alla fronte.

Fuori i colori cambiarono, arrivò l'ombra, la notte e infine la pioggia. 

Lei era felice di essere lì, sentiva le onde, dolci, costanti, come se fossero dentro la stanza.

Si guardarono senza parlare più.
Piccole gocce d'acqua rigavano i vetri delle finestre.
- Non vorrei essere da nessun'altra parte al mondo - 
- Neanch'io -



Scott Prior


Le mani sanno creare delle storie, le mani sanno plasmare l'argilla, la terra, la creta.
Così le mani di J. sulle sue la riportarono all'origine, ad un calore remoto che credeva di aver dimenticato, ma era lì, dentro di lei. 
Non era mai andato via.









giovedì 11 giugno 2020

La fuga

Laila era scappata di casa. Aveva abbandonato tutto, i suoi genitori e la quiete della sua famiglia. I fratelli, sua sorella. Laila attraversava la città distrutta dalla crisi e dalla pandemia.
Laila era stanca dei silenzi di Julian, stanca di essere messa ai margini della sua vita.
Lasciò anche lui.




Lei e il cielo, un rincorrersi di brandelli di nuvole, onde nel cielo alte come palazzi. 
Prese il treno che andava a est. 
Dormì accovacciata, tremando. Nel vagone solo lei e un uomo della frontiera. Lui sapeva di fumo e di vino.
Verso l'alba le si avvicinò.
- Bambina - le disse 
- Bambina, svegliati, devo parlarti - 
Laila lo vide attraverso la semi oscurità, come un vecchio cantastorie smarrito.
- Bambina devi stare attenta. Il virus è arrivato e non ci sarà scampo per noi. Tu non sei prudente, devi proteggerti, devi indossare la mascherina così, fino agli occhi. Io so cosa accadrà -
L'uomo della frontiera le parlò della fine del mondo, le disse che un tempo lui era un mimo, che la sua arte era finita, che tutto era perduto. Che era tardi per credere ancora nel domani. 
Era triste e a un tratto le parve bello, come uscito da una favola d'altri tempi. La giacca logora, gli occhi con le tracce del pianto recente. 
- Non è finita - disse Laila.



La ragazzina e il vagabondo oltrepassarono il confine. All'alba scesero alla stessa fermata. Faceva freddo anche se era giugno. Si salutarono. Lui le regalò un fiore giallo che aveva strappato dal ciglio della strada. Lei gli sorrise.

Il vagabondo decise che poteva provare a credere ancora, poteva provarci. Mise il suo cappello a terra, fissò la gente che passava e immaginò di essere a teatro. 
Il suo volto si trasformò, era un altro. La magia si era ricreata ancora. Non era finita. 

Laila si sentiva libera. 
Correva forte e apriva le braccia come per volare via. 

Arrivò fino al mare quel giorno.  




sabato 16 maggio 2020

Fragile e rosso

L'estate era iniziata e noi neanche lo sapevamo.
Confinati in casa da mesi, consolati solo dalle voci attraverso gli schermi, le voci amate.
Gli schermi ci riportavano le immagini dei volti, ci salutavamo, ridevamo e sempre sentivamo di aver perso qualcosa.
Il contatto.
Toccare.
Eravamo tutti diventati intoccabili.
Ci mancava la pelle, ci mancava l'odore.

Tornai ad uscire che era maggio. Il sole accarezzava le foglie degli alberi e io potevo di nuovo sorridergli. Attraverso il verde delle venature intravedevo la mia vita.
Una serie d'istantanee veloci che non riuscivo più a mettere in ordine.
Io bambina, io donna, io madre, io ragazza, io...

Arrivai al prato, verso il fiume.
I papaveri erano nati, inconsapevoli della loro bellezza, della loro fragilità.
Un giorno e moriranno, ma per quell'unico giorno saranno luce di fuoco nel verde.

Sarei arrivata in fondo alla strada?
E tu dov'eri?
Perché non eri lì, con me?

Io e te e i nostri fantasmi nell'estate mancata.
Tutt'attorno a noi il silenzio dei papaveri e l'aria sospesa.

- Io senza non vivo più.
Senza il sole,
senza il vento,
senza l'aria,
senza l'erba,
senza te,
io non vivo più -








giovedì 9 aprile 2020

Non fermarti

Suonavo tutti i giorni. Io e il mio pianoforte, nessun altro nella casa.

Le pareti, bianche, i fiori che avevo rubato sulla tavola, nell'acqua, le mie mani sui tasti.
C'era il coprifuoco, non si poteva uscire. 

Troppi giorni ormai, non li contavo più. Parlavo con me stessa e mi rispondevo. Sorridevo al cielo, sempre uguale, sempre diverso, fuori dalla finestra. 

Telefonavo molto, piangevo senza neanche accorgermene, mentre pulivo la casa, mentre cucinavo, mentre dormivo. 


Uğur Başaran


Nei sogni venivi a trovarmi e così non ero più sola.
Passeggiavamo molto, in mezzo a giardini rigogliosi, dai fiori grandi, alti quasi quanto noi. Il sole ci bagnava la pelle e non avevamo mascherine sulla faccia.
Così potevo vedere quando sorridevi.
Qualche volta invece eravamo in città ed eravamo liberi, in mezzo alla gente, come prima. 
Potevamo parlare di tutto e potevamo toccarci la mano e abbracciarci forte. 
Mi risvegliavo e stringevo forte il cuscino.

Andavo al pianoforte e le note erano tutto quello che mi era rimasto.

Poi mi preparavo per andare a fare la spesa. Mi coprivo il volto, uscivo, nella città invasa dalla primavera e dal silenzio. 
E camminavo. 

Io e i miei piedi.
Io e la mia libertà perduta.
Io potevo ancora respirare.
Dovevo andare avanti.
Le nuvole erano castelli nel cielo.  
Se cammino ancora un po' le raggiungo, mi dicevo. 
Se cammino ancora un po' arrivo da te.
Se cammino ancora un po' finisce tutto questo dolore.
Se cammino ancora un po' il tempo andrà a ritroso e torneremo a quel giorno.
Nel prato sconfinato, correvamo.
Pestavamo l'erba a piedi nudi con negli occhi tutto il desiderio dell'estate, percepivo il tuo fiato vicino al mio collo e tu sentivi il mio affanno. 
Gli alberi si muovevano lentamente
e tutto era appena iniziato per noi.
- Non andare via - ti avrei detto.
- Non andare via -

.






domenica 15 marzo 2020

Respira ancora

Chiusi in casa da giorni. Le finestre come unica prospettiva reale al mondo esterno.
Curavo le mie piante con devozione. Le bagnavo, toccavo le foglie impaurite, cercavo i boccioli che, ancora chiusi, nascondevano i loro colori.

La città era vuota, poche persone si aggiravano schive per le vie, col volto coperto da mascherine o sciarpe.
E tutto era come congelato anche in me, in attesa di una primavera mancata. Il desiderio era una rosa che respirava piano dentro di me.
Le sue spine si attorcigliavano sulle mie gambe, mi stringevano l'addome, schiacciavano il torace.


 Paul Klee


Respira, mi dicevo, respira più piano ora.
Non morirai, non moriranno.

E temevo per tutto, per le persone lontane e per le persone vicine.
Piangevo di nascosto, piangevo e speravo.
Tutti i visi mi passavano davanti, come un film così tanto amato ed ora perduto. I volti, un tempo così vicini, ora erano troppo lontani.





Eravamo tutti diventati intoccabili.
Circondata da fantasmi sempre più evanescenti.

Ma l'amore non finisce così.
L'amore continua.
Ogni giorno, anche in prigione, l'amore trova il modo di sopravvivere.

E un giorno usciremo dalle nostre case, le città torneranno ad essere vive, ma noi saremo diversi. Saremo cresciuti.
Ci abbracceremo e ci baceremo, toccandoci la schiena, le braccia, i capelli.

Noi, senza pareti a proteggerci, a nasconderci, cammineremo liberi nei viali,

l'aria profumerà di tiglio e ci racconteremo tutte le nostre paure.


Non ci lasceremo mai più.






mercoledì 26 febbraio 2020

I giorni dell'attesa

Era vietato uscire dal confine. Ci guardavamo con timore, tutti avremmo potuto essere contagiati.
Io e la mia famiglia eravamo reclusi in casa, io passavo le giornate a guardare fuori dalla finestra il cielo e sognavo la pioggia, ma no, lei non sarebbe venuta.
E neanche la neve.

Potevo anche stare in cortile, toccare l'erba, giocare con i miei fratelli, sopportare i miei genitori.
Potevo sognare di nascosto, potevo immaginare ogni cosa, nessuno mi avrebbe detto niente. Nessuno sapeva cosa avessi dentro:
una casa dalle pareti bianche,
un grande giardino rigoglioso,
stanze segrete piene di libri e i miei fantasmi.

Tutte le parole che non ho detto e che non dirò mai, le poesie che ho inventato, le canzoni che non ho mai suonato, i luoghi che ho visto solo tramite te, con i tuoi occhi.


Le grandi città, i sorrisi,
i fiumi,
tutto perduto.
Noi tutti ad attendere la fine del contagio, ignari, sperduti e pieni di speranza.


 Nirav Patel




Respiro, corro fino al cancello,
sorrido pensando di abbracciarti,
ancora una volta.
Ed ecco ti vedo, sei in bici, senza alcuna protezione, mi fai un cenno con la mano e mi guardi a lungo, hai gli occhi arrossati, come per un'attesa vana o per una veglia notturna protratta.
Dici il mio nome e questo mi basta.
Rimango al cancello a guardarti con le nuvole che cadono a pezzi, sulla strada deserta.








sabato 1 febbraio 2020

I fiori d'inverno

Sul balcone le piante fiorivano in un inverno polveroso e malato.
Il gelo non bastava a dissetarmi.
Fiori ghiacciati, sbiaditi, eppure tenaci, sul rosmarino.
E io a pensarti, costruendo castelli immaginari, scale infinite, stanze deserte, grandi finestre da cui entra il sole frantumandosi in miriadi di gocce di luce.

 Margaret Durow



Tu sei così reale e io ho pianto troppo.
Di notte sei con me, sento il tuo respiro.
Ho visto la casa della tua infanzia, gli occhi di tuo padre, le mani di tua madre... Vorrei ascoltare tutto, sapere tutto di te.
Mi accontento del suono della tua voce, unica. Mi è entrata dentro, come una canzone indimenticabile.

I fiori d'inverno su di me, piccoli petali incerti, sotto il cielo grigio, cresciuti a nuvole e silenzi.
No, non voglio morire con loro.
Sopravviverò fino a primavera.
Le foglie nuove non mi faranno male, usciranno da me come una liberazione a lungo attesa.
E tu mi guarderai e sorriderai con me.
Non ci lasceremo più, fino alla fine.
Separati e uniti, per sempre.





sabato 11 gennaio 2020

La foresta di ghiaccio

Via da te, 
dalle tue paure, 
dai tuoi silenzi. 
Via da te, 
rinasco nel gelo, 
con gli occhi incrostati di brina, 
nuda e viva, 
la pelle bianca, 
le vene blu, 
fulmini d'estate su di me.

Non hai più potere, 
io sono nuova ogni giorno.
Rinasco dalla mia polvere, 
di notte invento storie che tu non sai, 
quando avrai voglia di ascoltarle?
Non importa ormai, 

io cresco, 
come un albero reciso che getta germogli, 

nell'inverno della memoria.

Costruimmo una favola insieme, 
io ti aspettai, 
oltre ogni ragione, 
come una sacerdotessa devota, 
attenta alle tue fragilità.

Ora la favola ha bisogno anche di te, 
non posso raccontarla da sola.
La foresta di ghiaccio ha circondato la nostra casa, 
ma io ti vedo, 
eri un ragazzo e sorridevi.
Dove sei stato? 
Perché ti sei perso?

 Osamu Sekiya


Ascolto la mia voce, 
è quella di un tempo.
Vorrei poterti abbracciare, 
ritrovandoti, 
come un fratello perduto
che ha visto la profondità della notte,
ha visto il vortice
ed infine è tornato a casa, 
da me.
Non ho mai smesso di aspettarti, 
in fondo.