Un Natale freddo, le mascherine a segnare i volti, ma ancora, intatta, la voglia di abbracci. La voglia di stringere, di accarezzare.
Le vie del centro erano piene di specchi, vetrine con luci di candele, bambole esposte con gli occhi di vetro e i capelli morbidi, la Mole brillava, come fosse sommersa dalle acque in una notte di luna.
Io camminavo assorta, in un sonno vigile.
Lui mi fermò.
- Ho appena finito di dipingerlo - disse.
Era un uomo con i capelli lunghi, bianchi, la barba di qualche giorno, gli occhi sembravano aver visto albe migliori.
Mi porse dei piccoli dipinti, raffiguravano lo stesso paesaggio preso in momenti diversi della giornata. Una spiaggia, un'onda, un volo di gabbiani.
Eppure erano tutti diversi. L'onda non era mai la stessa, la luce sull'acqua mutava, il cielo non era mai lo stesso cielo, come me, come lui, come la vita.
Infinite piccole mutazione avvengono ogni istante. In noi, nel mondo.
E questo il pittore delle onde lo sapeva.
Aveva visto quel mare per quanto tempo? Per giorni? Ore o istanti?
Dipingeva infinite volte quell'angolo di mondo, eppure non era mai uguale.
Cosa hai perso laggiù? Un amore, un destino, un ricordo?
- Ne compro due, grazie, sono molto belli -
Sorrisi.
Iniziò a nevicare, mi allontanai con le due istantanee tra le mani e per un momento mi vidi lì, davanti a quel mare in un tempo lontano.
Ma fu solo un istante, mi voltai per salutarlo, ma non c'era più.
Cristalli di ghiaccio al suo posto sulla strada e una luce lontana, azzurra, di mare avvolgeva la via, come un'onda.
Si lavava ogni mattina e guardava le gocce scendere giù, percorrere la sua pelle, lentamente. Si asciugava col sole e col vento. Spesso girava scalza, le piaceva sentire la terra sotto i piedi.
Guardava il volo delle poiane, dei corvi. Accarezzava l'erba, parlava con i fiori. Amava il loro silenzio e il loro modo di risponderle, semplicemente esistendo, respirando.
In paese ci si chiedeva chi fosse, io sapevo solo una cosa, che quella donna doveva aver sofferto molto e che per questo era venuta qui, in questo posto dimenticato da tutti.
Io avrei voluto fuggire, vedere le grandi città, il mondo. Lei, invece era venuta qui dopo aver visto tutto, come per riposarsi.
Lisa era una scrittrice, ma non scriveva più. Troppo dolore interno.
Ero tormentata da lei, volevo sapere, volevo conoscerla.
Io ero solo una ragazzina del paese, la figlia della panettiera. Lei era Lisa.
Un giorno andai da lei. Mi ero inventata una scusa, un pane speciale che volevo farle assaggiare. Lo avevo fatto impastando noci, uvetta e lacrime.
Lei mi guardò sorridendo, nuvole lente nei suoi occhi.
- Entra - mi disse.
- Deve essere buonissimo - Lo affettò, mise a scaldare dell'acqua in un pentolino.
Io volevo parlare, ma non ci riuscivo.
- Come ti chiami? -
- Rose - in realtà mi chiamo Rosa Maria, ma Rose mi era sempre piaciuto di più.
- Rose - ripetè il mio nome come se fosse una canzone da imparare a memoria, per non dimenticarla più.
- Quanti anni hai? -
- 14 -
Quel numero. 14. 14 anni.
Lo sapevo, io lo sapevo che aveva perso l'unica figlia. Avrebbe avuto la mia età.
Lisa mise in infusione della calendula essiccata.
Le mani tremavano.
Allora io iniziai a raccontarle delle sciocchezze per farla ridere. Le parlai dei miei compagni di classe, dei miei professori, di quanto erano ridicoli negli schermi, le parlai di Riki e delle figuracce che avevo fatto per lui. Di quando c'eravamo abbracciati e baciati, ma non per davvero, perchè avevamo la mascherina.
Lei mi ascoltava veramente, non come mia madre che faceva finta e si vedeva che stava pensando ad altro. Lei mi ascoltava e sorrideva. Credo di non aver mai visto un sorriso così bello.
- E poi? - chiedeva - Poi cos'è successo? - come se le mie avventure da quattordicenne imbranata fossero così speciali, così uniche.
Fu l'estate di Lisa, per me.
L'estate del cambiamento. Scoprii che amavo raccontare e che amavo ascoltare. Inventavamo storie io e lei, filo dopo filo, tessevamo arazzi immaginari. Il nostro mondo sognato si incastrava con il mondo reale e si confondeva. Io e lei eravamo sia fuori che dentro alla storia e ci nutrivamo entrambe l'una dell'altra.
Lei aveva ritrovato il sorriso, io avevo scoperto una parte segreta di me.
Non ci lasciammo più.
Lisa e io, come superstiti in mezzo al mare in burrasca, ci eravamo trovate e superammo insieme la tempesta.
Era una casa abbandonata da qualche anno ormai. Un tempo era stata abitata da una donna strana, tutti la chiamavano "La matta". Ma io lo sapevo che non era matta, era semplicemente diversa dalla maggior parte delle persone e a me e D. piaceva proprio per questo.
D. era mio amico, il mio più grande confidente, il compagno dei miei giochi d'estate. Abitava nella cascina vicino a casa nostra, non amava molto parlare, ma io sapevo che aveva in sè luci mescolate a ombre, luci che a tratti si vedevano, nei suoi occhi scuri. Se dicevi un segreto a D. potevi starne certo, il segreto era in buone mani, al sicuro da tutti.
D. all'inizio non voleva che in paese si dicesse che giocava con me che ero una femmina, poi però lentamente, giorno dopo giorno, si arrese. I nostri giochi e le nostre avventure lo appassionavano e lui, ogni pomeriggio, fischiava al di là del cancello e io lo raggiungevo, felice.
Fu in quell'estate che noi la conoscemmo.
La casa di Ester, la matta, era fuori dal paese, nei campi di grano.
Un giorno decidemmo di raggiungerla per spiarla.
- Vediamo cosa fa, magari è una strega - bisbigliai. Ci acquattammo dietro un cespuglio di rose canine e restammo un po' in attesa.
Ester uscì, era vero che era diversa dagli altri. Aveva un vestito lungo a fiori, i capelli bianchi, folti e selvaggi sulle spalle e giocava con delle farfalle blu come la notte.
Io e D. restammo per un po' a guardarla a bocca aperta.
Ester ci mostrava un mondo che non conoscevamo e ne eravamo affascinati.
- Cosa fate lì dietro? Uscite che vi ho visti! -
Era inutile fingere con lei, uscimmo dal cespuglio. Ester ci guardò come nessun altro aveva mai fatto, aveva negli occhi un bagliore lontano.
- Volete un the? -
Diventammo amici. Ester dipingeva quadri dai colori misteriosi, laghi, montagne, colline che non aveva mai visto, ma erano tutte lì, nella sua mente, più reali della realtà.
Ester aveva amato un uomo che non era mai stato suo e per questo i suoi gesti erano come sospesi e il suo cuore era ferito, ma decise di dipingere e la sua ferita fiorì.
Io e D. eravamo ammaliati da lei.
Lei ci mostrò chi eravamo. D. aveva una voce che incantava, io sapevo inventare storie. Lei ce lo disse e noi scoprimmo che non eravamo solo due inutili ragazzini del paese.
Ci svelò l'arte.
Quell'estate la passammo in gran parte con lei, lei recitava con noi, io costruivo le storie e poi insieme mettevamo in scena le nostre avventure. Oppure ci faceva dipingere e i miei erano quadri di luce, mentre i paesaggi di D. erano spesso ombrosi, abitati da creature oscure.
Fu un'estate indimenticabile. Poi arrivarono le piogge. Ricominciò la scuola, non andammo più da lei per i lunghi mesi invernali.
La neve aveva coperto i campi. Tutto era bianco e tutto era silenzio.
In primavera sentii il fischio, era tanto che non vedevo D.
Era cambiato e forse lo ero anch'io, ma la voglia di vedere Ester era intatta per me e per lui.
Ricordo tutto di quel giorno. Le farfalle blu volteggiavano da sole, la porta era aperta.
La chiamammo. Nessuno rispose.
C'erano due tazze di the sulla tavola. E poi solo il silenzio.
Lei non c'era, era sparita.
Svanita nell'aria come le sue farfalle.
In paese si parlò a lungo della sua scomparsa, la sua casa restò abbandonata.
Diventò la casa delle farfalle. Erano di qualità diverse, si ritrovavano tutte lì, avevano sulle ali i colori notturni e luminosi dei quadri di Ester.
Io e D. andavamo a trovarle e le guardavamo incantati, immersi nei loro voli.
Lo sapevamo, lei ci aveva cambiato la vita. Lo si vedeva dai nostri occhi e dai nostri gesti.
- Un giorno comprerò questa casa - si ripromise D.
- E tu sarai sempre la benvenuta -
Ci abbracciammo e restammo così a lungo, in mezzo ai colori tutti attorno a noi.
Giocavamo con il ghiaccio, quell'inverno. La neve diventava il nostro sfogo preferito. Le mani nel bianco, il sorriso di Lena e le canzoni che ci cantavamo per non sentire tutto quel silenzio assordante e crudele.
Correvamo fino alla fine della via, questo ci era concesso.
La neve sotto le nostre scarpe, come un dolore attutito.
Io e Lena su e giù, fino allo sfinimento, vinceva chi resisteva di più.
L'alito fuori in nuvole leggere, la mascherina bagnata, le nostre madri che ci guardavano dalle finestre, le luci accese nelle case, come fortezze lontane.
Volevo sfinirmi per non pensare.
Non pensare ai segni che mi aveva lasciato quell'anno. Ferite interne che non guarivano, perdite, silenzi colpevoli da chi credevo amico, bombe carta sulle mie favole. I miei personaggi erano volati via, tutti nell'aria come inutili fantocci. Senza anima.
E Lena come sostegno.
- Non ti fermare - mi diceva - O vincerò io! -
La via deserta, la neve fuori e dentro di noi, il mondo impazzito e le nostre mani a reggerci, per non cadere, per non cadere più.