Le città senz'anima non esistono, Lay lo sapeva bene. Camminava svelta, finestre, destini, apocalissi, tutt'attorno a lei.
Palazzi sorretti da statue gigantesche, donne alate dallo sguardo altero e distante, uomini possenti, dalle barbe folte e le braccia forti.
Lay esplorava la città con stupore, un incanto dietro l'altro. Fontane nascoste, scale segrete, porte chiuse da anni, finestre murate, sguardi antichi e nuovi.
Da quando c'era Pedro nella sua vita ogni cosa la stupiva. Talvolta s'incantava a guardare i ragni e le ragnatele, perfette geometrie leggere e fragili, oppure si perdeva nel guardare le foglie ondeggiare dolcemente nei viali del grande parco. Infinite sfumature di giallo.
Infine, per un momento, diventava foglia e si lasciava finalmente cadere.
Come quella volta con lui.
Dopo un'attesa infinita Lay lo aveva guardato negli occhi e il tempo non aveva più importanza. Faceva freddo, faceva caldo? Era estate, inverno? Cosa importava.
C'erano lui e lei in una stanza. Le pareti si dilatarono, diventarono un bosco. Come una foglia Lay si era lasciata cadere dal grande albero e Pedro l'aveva raccolta prima che fosse troppo tardi.
Lay aveva 100 anni o forse molti di meno. Pedro era giovane ed era antico.
Si abbracciarono e gli anni tornarono indietro, l'amore rende giovani, l'amore rende ogni cosa infinita.
Lay e Pedro, fratelli, amanti, compagni.
Non si stancano d'inseguire il loro sogno.
Per questo lei ogni giorno va da lui attraversando tutta la città e lui la riaccompagna fino a quando diventa buio e torna ad essere ombra.
Dopo il tramonto Pedro, lentamente si trasforma. Parti del suo corpo si fanno opache e lei lo guarda con la luce negli occhi.
Rimane solo l'ombra di lui, compagna fedele di Lay.
Si dice che un giorno la maledizione che li ha colpiti finirà, si dice che un giorno, forse, Pedro e Lay potranno restare insieme, ma si dicono tante cose nelle città, ci sono leggende, ci sono ricordi malati.
Chi li ha visti al tramonto però non li dimentica, un istante meraviglioso, prima della fine.
Mani che si sfiorano prima dell'inverno della notte.
Le città senz'anima non esistono. Lay lo sa bene. Cammina svelta, finestre, destini, apocalissi, tutt'intorno a lei.
Sofia era giovane, ma l'estate l'aveva bruciata internamente.
Un campo secco dentro di lei. Era alla ricerca di acqua.
Era alla ricerca di una canzone che non ricordava più, eppure sapeva che c'era da qualche parte.
Sofia aveva 16 anni e non sapeva cos'era l'amore e neanche le interessava.
Era una ragazza abituata a lottare per sopravvivere.
Le città erano bruciate. C'erano solo più il silenzio, lei e pochi altri.
Il sole asciugava ogni cosa, anche i suoi pensieri.
Sofia ricordava un'infanzia diversa. Le grandi alluvioni, gli allarmi e poi la guerra.
Si guardava le mani e, a volte, piangeva.
Aveva perso tutti e viveva da sola, di caccia e ricordi.
Sua madre, suo padre, suo fratello. Ma preferiva cancellare tutto. Lasciare il bianco nella sua testa.
Aveva un solo amico, Zeno. Zeno era l'unico di cui si fidava. Lui usciva solo di notte, di giorno sorvegliava la madre, ferita, nascosta in una cantina.
Al tramonto, a volte, si trovavano per parlare.
E, per un momento, sembravano ragazzi.
E, per un momento, la guerra non c'era mai stata e il mondo non era impazzito.
In quei momenti Sofia era felice.
- Non devi più stare da sola, starai con me, se vuoi - le disse un giorno Zeno.
La nebbia e l'afa.
Le macerie.
Il fumo degli incendi.
- Andiamo a vedere il mare? -
- Sì, andiamo al mare, te lo prometto.
Il viaggio iniziò quel giorno stesso perchè Sofia cominciò ad immaginare il blu,
il celeste e l'aria.
Anche la sola immaginazione l'aiutò a sopravvivere.
Era l'inizio di una nuova storia e lei non lo sapeva.
Venne il giorno in cui i miei viaggi mi portartono a Pirra. Appena vi misi piede tutto quello che immaginavo era dimenticato; Pirra era diventata ciò che è Pirra.
Italo Calvino, Le città invisibili.
Non era una città, erano più città messe insieme.
Buche profonde, crepacci, palazzi corrosi dall'acqua di mare, conchiglie incastrate nei muri, passaggi segreti, trappole.
C'era rimasta la traccia della guerra, come proiettili nei ricordi delle persone.
Quando il vento soffia qui i bambini si fermano a guardare dalle finestre il mare che diventa cielo.
Quanti nomi ha questa città?
Quante storie sono nate dal mare e sono diventati fantasmi, nei vicoli della città vecchia?
- Parlami ancora di quando sei partito e pensavi di non tornare, parlami del tempo che s'infrange sul tuo corpo e ti lascia acqua salata sulle labbra. Parlami dell'amore e delle sue metamorfosi, delle ali che spingono per uscire e degli occhi offuscati per il dolore muto. Parlami di ciò che abbiamo perso per paura e per proteggere il nostro cuore ferito -
Poi ho scoperto che nella città multiforme le storie diventano leggenda.
Ciò che è stato raccontato dagli antichi diventa una canzone che parla del vento, del mare, degli amori spezzati e poi ricongiunti, in un gioco dolce, che non vuole, e non può, finire.
Ho fatto mille miglia per trovarti, senza averti mai. Ho disegnato centomila aquiloni, per darti la libertà e tu l'hai colta al volo.
Sei nato libero, figlio mio, sei figlio del vento.
Cosa ascoltavi nella mia pancia? Quali colori vedevi? Cos'hai sognato? Cavallucci marini e sirene, in una notte di pioggia, le gocce sulla pelle, forse lacrime, forse sudore.
Sei nato 18 anni fa e ormai non sei più mio, non lo sei mai stato.
Cammini nel mondo, così infinito, così distorto, ed io, non posso far altro che guardarti, nel sole, vederti in controluce e sorriderti.
Essere madre, essere casa, diventare rifugio, diventare acqua che nutre. Sangue e vita.
Ho fatto mille miglia per trovarti, senza averti mai. Hai disegnato mille sentieri nel bosco, si aprono mille strade,
Era il giorno del funerale della sua bambina. Può una bambina morire a quattro anni? Dopo pochi giorni di dolore? Faceva molto freddo. La neve dappertutto. Le montagne ghiacciate, giganti scolpiti nel cielo bianco. Una fila di persone, immobili nel cimitero, a Trinitè. Suo marito era bravo a lavorare il legno, le aveva fatto lui la croce. Una croce rosa, lei adorava il rosa. Una croce da bambina, ma le bambine non dovrebbero avere una croce, anche se è rosa, anche se ha dei cuori disegnati.
Lei, la mia amica, la mia stella, era lì, nel bianco a ricevere le condoglianze.
Che brutta parola: condoglianze. Non mi è mai piaciuta. È fredda. Preferisco dire: mi dispiace tantissimo.
Preferisco abbracciare e basta e piangere, magari.
Era l'inverno più freddo del decennio e si era ghiacciato anche il mio cuore.
Lei era quasi trasparente, non puoi capire chi perde un figlio.
Non puoi capire.
L'abbracciai e mi sentii spezzare lentamente, pezzo a pezzo.
Cosa sarebbe rimasto di me, di noi.
Io e lei, felici.
Io e lei.
Il dolore non si spiega.
Io e lei a Torino, io e lei nella nostra stanza a ridere.
Ho provato a scrivere direttamente al computer, ma non ce l'ho fatta.
La storia si sbriciolava davanti a me, così inutile e sbiadita. Non riuscivo a sentire i personaggi. Personaggi che restavano muti, non riuscivo a percepirli. A sentire il loro dolore, la loro gioia.
Ho lasciato stare il pc, ho preso un quaderno e una penna. La storia si è aperta lentamente come un fiore, petalo a petalo.
È solo così che ci riesco. Solo con il contatto del foglio e lo scorrere della penna. È lì che accade il mio piccolo prodigio, è lì che divento il tramite tra un mondo e l'altro.
E non importa se ci vorrà più tempo, perché poi dovrò ritrascrivere tutto, non importa. L'essenziale è che si crei quella situazione strana in cui io entro dall'altra parte, come nella tana del Bianconiglio, e che possa osservare, sentire, vivere quello che stanno vivendo loro, i miei personaggi.
Un'altra cosa serve, oltre al quaderno e alla penna. Mi serve il silenzio.
Non canzoni, non parole, non voci. Solo il silenzio. E questo talvolta è davvero difficile da ottenere.
Ma ci proverò. Ho voglia di tornare a viaggiare. Dentro la mia storia inventata.