La città era una landa di ghiaccio. Poche persone si aggiravano, superstiti.
Nel cielo le stelle erano buchi di luci lontane appuntite. E Lara lo cercava come si cerca l'acqua nel deserto. Le vetrine erano piene di oggetti luminosi, ovunque schermi ed immagini. Occhi, labbra, destini troppo veloci per essere visti.
Lara era giovane, eppure era già perduta.
Una ragazzina in una città-labirinto. Beveva per reggere le notti al bar. Spillava la birra, puliva il bancone, riempiva i bicchieri di liquore e rideva per non sentire la voce di Jo dentro di lei. La sua voce, come una maledizione e una benedizione.
Scorrevano le immagini di loro e di quello che erano stati. Lara e la sua voglia di vertigine quando si avvicinava troppo al precipizio e Jo così ermetico e sfuggente. Un giorno l'aveva visto piangere e per un momento aveva visto nei suoi occhi il bambino che era stato, i suoi giorni amari, la sua infanzia violata.
E lui aveva visto tutto il suo dolore.
Si erano abbracciati, troppo giovani per morire. Lei gli avevo toccato le spalle e aveva sentito le sue ali.
Erano angeli caduti, conservavano il ricordo della luce, ma poi erano stati cacciati per la loro disubbidienza. Il viso di Jo vicino al suo, il suo respiro. La dimenticanza.
Lara aveva visto le foreste mentre lo stringeva. Le radici primitive, i laghi, il muschio e lui aveva detto - Non vorrei che finisse mai -
Ma era finito. La vita era crudele, la città era piena di voci e lui dov'era? Era dovuto partire. Lei era stata solo una comparsa nella sua vita.
Camminava, disegnava, mangiava e lui eri sempre con lei, come un compagno silenzioso e invisibile.
Una notte Lara vide la luna sciogliersi lentamente. Gocciolava in silenzio. Com'era possibile che nessuno la vedesse? Le persone camminavano ignare, gli occhi fissi ai loro schermi, e la luna perdeva gocce di luce nel cielo.
Fermò un uomo, gliela indicò, lui si allontanò da lei, sospettoso.
Rimase ferma, sul marciapiede, forse la vedeva sciogliersi solo perchè stava piangendo.
Era lei il problema.
Ma il ricordo di Jo la consolò. Andò a casa e gli scrisse una lunghissima lettera in un tempo in cui le lettere non esistevano più. Poi la bruciò.
Suonò il telefono. Era lui. Le disse che non era finito proprio niente, che sarebbe tornato.
Lara si affacciò alla finestra. La città era un intrico di linee spezzate rosse e blu. Il mondo era in fermento, le statue si sgretolavano, le mani erano piene di tagli, ma lui c'era. Lui c'era. Questo curava le sue ferite.
Si specchiò. Era cambiata, era cresciuta. E non aveva più paura delle ombre.
Io e le mie sorelle Maria e Giusy andavamo a raccogliere le mele, nei campi dietro a casa. Le foglie delle viti si facevano rosse, c'erano tracce di sangue anche dentro di loro.
Io mi sentivo in fermento, ma non volevo darlo a vedere. Dovevo dissimulare indifferenza, ma nel mio corpo fioriva una pianta spinosa, dai petali scarlatti. Era l'anima che tornava a palpitare, come all'origine della mia vita.
Durante l'infanzia il mondo era stato una continua scoperta per me. La linea dell'orizzonte che si confondeva con il cielo, i capelli ramati di mia madre, le sfumature impreviste del legno, la voce forte di mio padre, il suono della chitarra nelle sere d'estate. Tutto era scoperta, tutto era stupore ed io crescevo felice lontana dal mondo.
La mia famiglia aveva scelto l'esilio ed io brillavo in quell'incanto remoto.
I miei genitori erano fuggiti dal mondo e si erano rintanati sulla collina a coltivare mele e ortaggi, e a vendere l'uva alla cantina sociale. Io ero cresciuta così, con Maria e Giusy come uniche compagne di vita, insieme ai gatti, al cane e alle galline.
Tutto scorreva uguale lassù, le stagioni scandivano il tempo del lavoro, mia madre c'insegnava a leggere e a scrivere. Una volta a settimana scendevamo in paese e io e le mie sorelle guardavamo i ragazzi. Noi eravamo chiamate le tre streghe, ma questo non speventava i giovani, anzi li incuriosiva.
Alla festa di mezz'agosto io, Giusy e Mari ci baciavamo sempre con qualcuno e poi ne parlavamo a lungo tra di noi, nelle lunghe sere d'estate.
Ma tutto questo per me era sempre stato un gioco senza importanza. Un bacio sotto le stelle, una carezza nel prato e poi quel viso spariva nella nebbia dell'autunno.
Vivevo quegli avvenimenti senza trasporto, non ero come le mie sorelle che s'innamoravano e bruciavano internamente.
Io guardavo le stelle cadere e non esprimevo nessun desiderio.
Fino al giorno in cui conobbi lui. Era il nostro nuovo vicino di casa. Abitava nella cascina dietro alle vigne, insieme a suo padre. Si faceva chiamare Vic, ma il suo nome era Vittorio. Aveva la pelle bruciata dal sole, stava sempre nei campi, le braccia forti, lo sguardo liquido.
Avevo più volte provato a disegnarlo, ma non ci riuscivo... Mi sfuggiva sempre qualcosa di lui. Un'ombra o una luce negli occhi, non so dire.
Vic mi conquistò lentamente, giorno dopo giorno. Passavo a salutarlo per dargli delle mele, o dei pomodori e lui mi parlava di cose insolite. Di sera leggeva molto e mi raccontava a puntate i romanzi o i saggi che approfondiva. Io sgranavo gli occhi e assorbivo tutto l'universo che percepivo in lui. Sapevo che voleva partire un giorno, andare lontano e questo mi feriva. Voleva vedere il mondo, ma i confini erano diventati difficili da superare, eppure continuava a sognare. Quella sua vena inquieta mi attirava e allo stesso tempo mi feriva. Quando mi sentivo triste per questi suoi discorsi mi mettevo a disegnare furiosamente luoghi e persone inventate, fantasmi e mondi immaginari.
A lui piaceva stare con me, ma non me lo diceva. L'intuivo però, perchè si appassionava a spiegarmi le cose, come se la mia ignoranza fosse perfetta per lui, un terreno fertile in cui far crescere i suoi sogni.
Diventammo inseparabili. Nel tempo libero dove c'era lui, c'ero io.
Alla festa di mezz'agosto non baciai nessuno perchè avevo lui in testa.
Un giorno di ottobre lo trovai fuori dalla cascina con lo sguardo perduto.
- Lù ti devo parlare - mi disse. E io sentii fremere dolorosamente i petali dentro di me.
Andammo dietro al noce, lui aveva lo sguardo confuso.
- Devo partire, è arrivata questa - Era la Lettera.
Lentamente, quasi senza clamore, la guerra era tornata nel nostro mondo.
E lui doveva andarci.
- No - protestai come una bambina.
Lui mi abbracciò forte. Non l'aveva mai fatto. E io mi lasciai avvolgere dal suo corpo, così diverso dal mio. Sapeva di menta e d'aria.
Ci baciammo e il suo bacio fu diverso da tutti gli altri. Ed io capii le mie sorelle. Il rosso era entrato anche in me, finalmente. Un rosso tramonto, dolce e amaro al tempo stesso.
- Ti aspetterò, tu sei forte e tornerai presto. La guerra finirà presto - mormorai.
Fu il lungo inverno dell'attesa. Poi ci fu la primavera amara.
La guerra non voleva finire e l'estate fu arida, senz'acqua.
Ma a settembre Vic tornò. Era ferito ad una gamba e questo l'aveva salvato dal fronte. Appena arrivò io gli portai una torta fatta da me, c'erano anche lacrime di gioia là dentro.
- Ti curerò io la gamba, sono una brava infermiera -
Lui aveva il volto distrutto, la scia del dolore nei suoi gesti, ma quando mi vide mi sorrise. Dov'erano tutti i suoi sogni, le sue parole, la sua voglia di fuggire via lontano?
Non c'erano più o erano state trasformate dalla guerra, forse? Vic era felice di essere lì, con me.
Ero cresciuta in quella villa e Barbablù era diventato il mio unico punto di riferimento. La casa era nascosta da un giardino rigoglioso, siepi di bosso, rose, margherite dai petali screziati di lacrime, sospiri.
Vialetti nascosti portavano a fontane, tane di foglie o statue di angeli con le ali mozzate.
Barbablù era attratto dagli angeli, creature incerte e supreme, ma in un certo senso li temeva, proprio lui che sembrava così forte, così sprezzate e altero.
- Dio non esiste - bofonchiava spesso, eppure io non gli credevo e lo guardavo cercando di intuire chi fosse veramente quell'uomo.
Aveva un portamento regale, grandi spalle forti, una barba selvaggia e folta, nera dai riflessi blu, da qui il suo soprannome.
Il suo nome tutti l'avevano dimenticato, perché lui stesso voleva dimenticarlo. Io no, io lo sapevo e lo custodivo in segreto, così come custodivo alcuni tesori in una scatola di latta.
La scatola raffigurava il mare impetuoso, un tempo aveva conservato dei biscotti, ora c'erano i miei ricordi e le mie speranze.
Una fotografia in bianco e nero con i miei genitori e mia sorella, una lettera d'amore, uno scontrino sbiadito, una rosa secca, una carta di caramella all'arancia e una chiave.
Ecco i miei tesori.
Nella fotografia si vedevano un uomo e una donna, in un giardino incolto e due bambine, una quasi nascosta da una grande dalia, l'altra in braccio all'uomo. La foto mi riportava indietro di anni, in un'epoca vicina eppure remota perchè ora le cose erano cambiate e io non ero più quella bambina dalle trecce scure e il sorriso sincero.
La lettera d'amore mi era stata scritta da un compagno di scuola, Martin. L'avevo letta così tante volte che l'avevo imparata a memoria:
"Cara Ari, ti sogno tutte le notti e ti penso. Maledetta a te, ti penso ogni ora.
Una volta ti prendevo in giro, ricordi? Ti chiamavo 'Trecce storte' e adesso... Adesso vorrei passare del tempo con te, è questa la verità, vorrei vederti sorridere.
Il tuo sorriso mi porta la pace nel cuore. E il mio cuore, tu lo sai, ha un grande buco nero. Tu sai portare un po' di luce là dentro, piccola Ari.
Ti aspetto fuori da scuola.
Martin."
Martin era il mio amico del cuore, non lo vedevo da così tanto tempo che il suo viso sfumava e diventava confuso. Non potevo uscire dalla casa di Barbablù, ero una reclusa e tutto il mondo esterno mi era proibito.
Lo scontrino era di una gelateria dove io e Martin avevamo preso una granita, quel giorno c'eravamo anche baciati. La sua bocca sapeva di fragola, la mia di limone, i nostri due gusti insieme erano freschi e dolci al tempo stesso.
La rosa secca l'avevo conservata perché apparteneva alla casa della mia infanzia. L'avevo recisa l'ultimo giorno, prima di entrare qui dentro e la carta di caramella all'arancia me l'aveva data mia sorella un giorno in cui avevamo litigato e poi fatto pace.
Barbablù è l'uomo più potente della città, può scegliere le sue spose, esse vivranno nel lusso e nella conoscenza, la sua enorme biblioteca è a disposizione delle sue donne, ma esse mai potranno varcare il grande cancello. La vita del mondo esterno diventerà un ricordo remoto, del resto lui sa rendere ogni giorno e ogni notte indimenticabile, così tanto che nessuna donna vorrà più uscire dalla villa incantata.
Così si diceva, dalle nostre parti e forse, in parte era così. La villa era un luogo magico, corridoi infiniti si aprivano al nostro passaggio, gli specchi ci mostravano luoghi meravigliosi, città lontane sempre diverse. "Sono le città invisibili" mi confidò lui, un giorno "ma ognuna di voi vede paesaggi diversi, in base al vostro mondo interiore, il tuo Ari è il migliore. Hai una grande immaginazione, piccola mia".
E mi abbracciava. Così sentivo il suo odore di tabacco e mi perdevo in quel mondo immaginario.
Volevo vederle tutte quelle città, sfioravo gli specchi e talvolta mi accorgevo delle lacrime che scivolavano lente sul mio volto.
Ero prigioniera.
Ero ancora troppo piccola per amare, mi sarei lasciata toccare soltanto da Martin e Balbablù lo sapeva.
- Aspetterò - diceva accarezzandomi la schiena - Verrà un giorno in cui tu verrai a cercarmi - e mi guardava con i suoi occhi oscuri. Si accontentava di abbracciarmi e prendeva dalle altre tutto il resto, senza pazienza né ritegno.
Loro negli specchi vedevano deserti.
Ed io, lentamente, iniziai a pensare alla rivolta.
La chiave
L'ultimo tesoro nella scatola di latta è la chiave.
C'è una sola stanza proibita a noi tutte, amanti e spose. È l'ultima porta in fondo al corridoio del primo piano. Lì nessuna di noi può entrare, solo lui, il nostro signore, può accedervi.
Dov'era la chiave? Tutte noi ce lo chiedevamo, perché in fondo, sebbene stordite dalla meraviglia labirintica della villa, noi tutte volevamo scoprire il segreto di Barbablù.
- Ari solo tu puoi trovare la chiave - mi disse un giorno Lorena, la prima sposa. Lorena aveva lunghi capelli bianchi, occhi celesti e labbra rosa, come petali. Era stata la prima amata da Barbablù e aveva molto sofferto quando si era accorta che lui non era mai soddisfatto, nè di lei, nè di nessun'altra perchè nessuna donna avrebbe mai placato il vuoto che lui percepiva.
Lorena si era affezionata a me e vedeva in me una possibile salvezza.
- Ti ho vista l'altro giorno in giardino. Parlavi con gli angeli di pietra -
Era vero. Nella mia solitudine avevo cercato amicizia anche nelle statue, i grandi angeli con le ali recise, anche loro prigionieri nel giardino.
E loro avevano iniziato a parlarmi, con voci soffuse, come i fruscii del bosco, voci che sentivo soltanto io.
- Se puoi parlare con gli angeli troverai la chiave. Se troveremo la chiave scopriremo il suo segreto e io saprò se lo amo o lo odio. Capiremo se va salvato o distrutto -
Gli angeli
Accadde di notte, in estate. Faceva caldo e non riuscivo a dormire. Silenziosamente, a piedi scalzi, uscii dalla mia stanza e andai in giardino.
I grilli bisbigliavano frasi sconnesse, i miei ricordi si rincorrevano e cadevano, la mia immaginazione si mescolava alla realtà.
Gli angeli di pietra tacevano con gli occhi chiusi.
- Sto cercando la chiave della porta segreta, forse voi sapete dov'è? -
L'angelo più grande mi guardò con dolore, sembrava trafitto da una lama incandescente e invisibile.
- È sotto al suo letto, bambina. Forse tu puoi aiutarci e aiutarlo. Forse non tutto è perduto -
Corsi dentro e andai nella sua stanza. Pensavo di vederlo avvinghiato a qualcuna di noi, ma il suo letto era vuoto.
Guardai sotto e trovai la chiave. Era d'argento grande e luminosa come la luna.
La nascosi nella scatola di latta.
La stanza segreta
Il giorno dopo pensai di usarla. Di notte, sgusciai via dal mio letto e andai a cercare Lorena, ma non la trovai, forse quella sera era stata scelta? Dovevo andarci da sola.
La porta era al primo piano, in fondo al corridoio.
Mentre camminavo vedevo negli specchi le città invisibili. Quella notte erano tutte vuote e spopolate, azzurre e blu. Qualcosa stava cambiando anche in me, come in tutte le altre. Forse presto anch'io avrei visto solo deserti e ghiacciai. Era tempo di cambiare.
Inserii la chiave d'argento nella toppa, il cuore pulsava forte nelle orecchie.
L'aprii.
C'era lui nel buio, ma dall'oscurità si muovevano anche alcune creature fatte d'acqua e terra, fuoco e aria.
Erano creature incerte e inquiete, sue idee che si materializzavano in quella stanza.
- Finalmente sei venuta Ari, ti stavo aspettando da tanto tempo. Ho più copie di questa chiave. Una l'hai trovata tu. - e i suoi occhi erano bui, annegati nel dolore.
Mi porse un coltello affilato.
- Fai quello che devi fare, Ari -
Pensai alla libertà, pensai alle altre, pensai a Lorena, A Martin e alla mia famiglia.
Lasciai cadere la lama.
Le creature continuavano a mutare forma e Barbablù mi parve deluso.
- Omar, noi oggi ce ne andremo, saremo libere. - dissi.
Lui si fissò le mani grandi, trafitte. Omar, era tanto che nessuno lo chiamava così.
Mi guardò per un momento illuminato.
- Il cancello rimarrà aperto, resterà solo chi lo desidera. -
…
Tutti i cittadini poterono entrare nella villa di Barbablù, si aggiravano incantati tra i roseti e le aiuole fiorite e ricordavano gli anni bui in cui quell'uomo si prendeva le loro figlie.
Io sono tornata a casa e ho raccontato tutto a Martin, lui mi ha spinto a scrivere tutta la storia. Talvolta ci rincorriamo nel giardino, ma ora è davvero tutto diverso.
Gli specchi sono stati distrutti, Barbablù dice che dobbiamo inventare noi le nostre città invisibili.
Talvolta io e Martin andiamo a cercare gli angeli dalle ali mozzate, ma da quella notte nessuno li ha più visti.
Ora Barbablù vive ritirato in poche stanze insieme a Lorena, lei non l'ha mai abbandonato e lui adesso la guarda come un uomo che ha trovato l’amore. Insieme sembrano due alberi in cima ad una collina, al tramonto.
Ci sono porte nella mente. Porte che rimangono chiuse per decenni, porte che si temono eppure potrebbero nascondere meravigliosi giardini.
Talvolta le guardiamo con sospetto. Sappiamo che ci sono, che fanno parte di noi, ma non osiamo aprirle.
A volte abbiamo perduto la chiave, altre volte l'abbiamo nascosta noi, in luoghi inacessibili.
Le porte hanno forme bizzarre. Rappresentano parzialmente il luogo che nascondono.
Ci sono porte di ghiaccio, incrostate di dolore, porte di legno intarsiato di ricordi, porte di vetro trasparente, porte rosse, verdi, blu, gialle, porte nere.
Talvolta capita di ritrovare le chiavi dopo un lungo dolore.
La chiave della mia porta rossa era una fiamma, la chiave della porta blu era una stella d'argento. Le osservavo incredula, come quando da bambina osservavo i fiori, così meravigliosi, così incomprensibili.
Un dolore può fare questo?
Far ritrovare le chiavi perdute?
Andai a seppellirle nella mia mente. Entrambe vive e palpitanti. La fiamma e la stella.
Un giorno, quando mi sentirò pronta, andrò a prenderle e inizierà una nuova storia.
Sofia era giovane, ma l'estate l'aveva bruciata internamente.
Un campo secco dentro di lei. Era alla ricerca di acqua.
Era alla ricerca di una canzone che non ricordava più, eppure sapeva che c'era da qualche parte.
Sofia aveva 16 anni e non sapeva cos'era l'amore e neanche le interessava.
Era una ragazza abituata a lottare per sopravvivere.
Le città erano bruciate. C'erano solo più il silenzio, lei e pochi altri.
Il sole asciugava ogni cosa, anche i suoi pensieri.
Sofia ricordava un'infanzia diversa. Le grandi alluvioni, gli allarmi e poi la guerra.
Si guardava le mani e, a volte, piangeva.
Aveva perso tutti e viveva da sola, di caccia e ricordi.
Sua madre, suo padre, suo fratello. Ma preferiva cancellare tutto. Lasciare il bianco nella sua testa.
Aveva un solo amico, Zeno. Zeno era l'unico di cui si fidava. Lui usciva solo di notte, di giorno sorvegliava la madre, ferita, nascosta in una cantina.
Al tramonto, a volte, si trovavano per parlare.
E, per un momento, sembravano ragazzi.
E, per un momento, la guerra non c'era mai stata e il mondo non era impazzito.
In quei momenti Sofia era felice.
- Non devi più stare da sola, starai con me, se vuoi - le disse un giorno Zeno.
La nebbia e l'afa.
Le macerie.
Il fumo degli incendi.
- Andiamo a vedere il mare? -
- Sì, andiamo al mare, te lo prometto.
Il viaggio iniziò quel giorno stesso perchè Sofia cominciò ad immaginare il blu,
il celeste e l'aria.
Anche la sola immaginazione l'aiutò a sopravvivere.
Era l'inizio di una nuova storia e lei non lo sapeva.
In un tempo della mia vita mortale, mi trovai a vivere in un paese immorale.
Non era al di là dei deserti o delle Alpi innevate, ma era l'Italia,
la terra delle strade bucate.
In quest'epoca oscura non vi era pace alcuna,
non per i lavoratori, non per i procuratori, non per gli infermieri o per i dottori,
non per le commesse o per i professoroni.
Il lavoro non c'era più, questo era il vero problema,
ma i due re decisero di dare la colpa al sistema.
L'uomo nero che verrà, lui la guerra porterà,
qualcuno diceva;
le banche, le scie chimiche, le tav e le burocrazie europee,
sono loro a frenare la nostra crescita naturale ed imparziale;
di tutto ormai si temeva e qualcuno talvolta piangeva.
Perché in quel vecchio paese, ricco di glorie passate, e vestigia rinomate,
ben poco era restato, se non tetre voci arrabbiate.
Il paese di Cesare, Dante e Pirandello
adesso non è che lo zimbello
di tutti quanti,
e più non ricorda perché si è riempito di furfanti.
Non sa rialzarsi, impreca
e tira i sassi,
come un vecchio rimbambito,
che non guarda la luna lassù,
ma il suo povero, rugoso, terzo dito.
Ascolta, amore, la favola bella, del tempo capovolto.
Oggi era ieri, ieri era domani.
La favola del mondo nuovo che adesso è già vecchio.
La favola del rancore,
che io non so capire.
Ascolta, amore,
la mia storia. Non parla di uomini potenti, ma di uomini e donne comuni,
stanchi di essere grigi,
di essere dimenticati,
si guardarono negli occhi,
gli uni con gli altri.
Mille sfumature di marrone, celeste, nero, verde.
Perché si erano persi per così tanto tempo?
Cosa erano diventati, infine?
Stranieri a se stessi, non riconoscevano più la loro casa.
Le loro mani avevano scie, solchi di terra,
le loro gambe erano stanche, ma ancora forti.
Si misero in cammino.
Il mondo nuovo, vogliamo un mondo nuovo.
Tenetevi pure tutto il resto.
Sono cresciuta all'ombra, nella periferia di una città di provincia. Lì non c'era la bellezza delle montagne, né l'incanto mistico del mare. C'erano palazzi tutti uguali, prati impolverati, cemento sul verde sporco; per me e i miei amici era normale desiderare la fuga e il riscatto.
Erano anni di transizione. Molti di noi non potevano più tollerare le dinamiche delle discoteche, le attese davanti ai buttafuori: sei abbastanza figo per entrare qui dentro, amico? No, non lo sei, vai via, sgombra.
E poi lì non c'era la musica che ascoltavamo noi: i Clash, i Madness, i Nirvana, i Mano Negra. Scoprimmo i centri sociali.
Foto di Milena Poggio
Luoghi recuperati o sottratti, colori violenti sulle pareti, il cemento assumeva finalmente altre sfumature. L'arcobaleno nelle discariche.
Mi trovai bene, mi trovai a casa. C'erano persone come me, considerate strane dagli altri, considerate eccentriche o semplicemente out.
E anche la mia piccola opaca provincia sembrava illuminata da una luce nuova, rossa come la brace, blu come la profondità dell'abisso, viola come l'amore senza speranza.
Noi eravamo il futuro, noi potevamo cambiare le cose.
Oggi siamo uomini, ma non siamo noi al comando? Abbiamo portato quei colori fuori da lì?
Forse non dovremmo dimenticare i sogni della nostra fottuta adolescenza.
Ci fu un'epoca, tanti e tanti anni fa, in cui tutti aspettavano.
Aspettavano il treno, l'autobus, il loro turno al banco dei salumi o alle poste.
Aspettavano anche di lavorare, perché il lavoro non c'era più; aspettavano la persona giusta da amare, perché negli altri non si vedevano più i pregi, ma piuttosto gli insopportabili difetti.
Aspettavano per avere dei figli e infine i figli non arrivavano più, non per crudeltà, ma perché ormai i loro corpi erano diventati vecchi.
Aspettavano tutti, da sempre.
Ma non si annoiavano, perché avevano svariate possibilità di svago. Erano passati i tempi grigi della televisione, ormai si viveva nell'era degli specchi magici. Tutti possedevano, infatti, degli specchi che consultavano con accanimento. Lì c'erano proiettate le parole degli amici, le foto, lì c'erano le notizie del mondo, lì c'era una possibile via di fuga. Grazie agli specchi incantanti le persone si sentivano meno sole e non si rendevano conto che la vita scivolava via, fuori dal tempo.
Si sognava una rivoluzione, ma non si aveva la forza di agire. Il sogno aveva preso il posto della realtà, ma non era entusiasmante, perché nulla era vero.
Alcuni uomini e donne si accorsero dell'inganno, distrussero gli schermi, tornarono a sporcarsi le mani di terra e sudore. Ma ancora non sappiamo che ne sarà di loro e della loro età sospesa e incerta. Di certo sappiamo che quella fu un'epoca soggetta a passioni fugaci e ingannevoli. I veri eroi rimasero nel limbo, sconosciuti, silenziosi, ma vivi.
C'era una volta un paese strano, ricco di frutti, baciato dal sole, amato dal vento. Era il paese Senza Nome, aveva infatti dimenticato ogni cosa del suo passato. Nel paese Senza Nome gli uomini pensavano di non poter cambiare le cose, osservavano distrattamente gli schermi dei loro pc o del televisore, vedevano i loro re sprofondare negli errori, ma credevano che non ci fosse nulla per evitare quel declino. Il paese Senza Nome fu invaso dalla nebbia, tutti rimasero chiusi in casa, sospettosi. La nebbia era dentro di loro, ma loro non lo sapevano. Rimasero prigionieri di loro stessi, inconsapevoli e stanchi. Attendevano il pifferaio magico, lui avrebbe portato via tutto quel bianco e li avrebbe liberati per sempre.
Ma il pifferaio era solo un vecchio venditore di pentole, erano loro che dovevano uscire, affrontare l'incerto, riprendersi le città abbagliate dal nulla.
Il paese dei perdenti è una terra amena, ricca di cultura e tradizione. In quel paese però si è persa la dignità dei padri, si insegue il mito del denaro, dimenticando tutte le epiche battaglie per la verità.
E' un paese potente, ma minato dalla corruzione, che ha abbandonato persino l'idea di cambiare.
Lì governa un re che ha il potere delle televisioni, malgrado i suoi vizi e le sue continue menzogne il popolo lo ama, perdonandogli ogni eccesso.
Anche l'opposizione si è messa d'accordo con il re e tutto continua uguale da sempre, nei secoli dei secoli. E' uno strano paese il mio, una terra senza più favole ed eroi. E noi neanche ce ne accorgiamo più.