Era il confine del sonno. Una casa al bordo del precipizio.
L'oceano s'intravedeva dalle grandi finestre delle camere da letto. Il colore del mare era mutevole, grigio, celeste, blu. I gabbiani gridavano felici gettandosi a capofitto verso le onde.
Forse stavo dormendo. Il corridoio era in penombra, la cucina era bagnata di una luce opaca, acquatica. C'era un grande acquario al posto della televisione, era un acquario marino, con anemoni e pesci pagliaccio.
E tu eri lì, come al di là del tempo. Ci guardavamo, superstiti di un conflitto. Ti avevo portato un vecchio album di foto e una bottiglia di vino.
Il mare entrò in noi, lentamente.
Il mare era finito nei nostri ricordi e nelle nostre speranze.
- Vieni - mi hai detto e mi hai mostrato una scala in pietra, dietro alla casa. Scendeva verso l'oceano, in mezzo al vento di quella mattina.
Io avevo paura di cadere, troppo impacciata ormai, troppi anni sulle spalle, ma guardai solo i miei piedi, un passo alla volta, senza pensare.
L'oceano era lì, immenso. E io e te eravamo così piccoli, vicini a lui e al cielo. Ci sorridevamo, un po' impacciati, come compagni di giochi.
Eravamo felici.
Le onde, le attese, le lacrime, le ferite, tutto era lì, in quell'istante infinito.
Io lo chiamo "il sogno del mare". Lo tiro fuori ancora adesso, quando mi manchi. Prendo dalla mensola una grande conchiglia che proviene dall'oceano e l'accosto all'orecchio. Così torno in quella casa al confine del mondo e tu torni a parlarmi, come allora.
- Non tutto è perduto -
- Ciò che ami resta, ciò che ami mette radici e non se ne va via -
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