“L’amore
spesso può far cambiare natura!” spiegò la triglia al granchio, sul banco del
mercato. “Se non ci credi ascolta questa storia...”
- Ginevra - le sue labbra pronunciavano quel nome
lentamente, come se si perdessero in una cantilena antica.
- Ginevra era tutta la mia vita - concluse Lancillotto
guardando il vecchio cinese dal largo cappello di paglia.
Il vecchio non dava alcun cenno d’intendere le parole di
quel ragazzo dai capelli folti e ispidi, quasi fossero vivi, che lo fissava al
di là del banco. Nevicava ed era notte. Il quartiere orientale però era
affollato come sempre e le luci lontane dei neon parevano lacrime di mare.
Ziang, così si
chiamava il cinese, mescolò i gamberetti rosa nella padella di alluminio; il
vapore ne usciva a tratti e quasi sembrava nebbia.
Lancillotto alzò
lo sguardo e Ziang si accorse che aveva del ghiaccio su un sopracciglio, come
un ricamo o un arabesco di cristallo.
- Non posso più aspettare! - gridò. Ziang parve
svegliarsi di colpo.
- Io la vado a liberare, hai capito? -
Il cammino si
apriva lento davanti a lui; la strada era ghiacciata, Arturo, il suo fido
destriero, non poteva andare al galoppo. I suoi zoccoli passavano sull’erba ai
lati del sentiero e l’erba si spezzava, morta sotto la crosta del gelo.
- Ehi cavaliere! - una voce si intrufolò nel silenzio.
Lancillotto si voltò, non si era neanche accorto di quel contadinetto che lo
guardava a poca distanza, nel campo deserto.
- Hai per caso bisogno di uno scudiero? - Lancillotto
arcuò un sopracciglio. Il ragazzo si avvicinò e si tolse il cappellaccio
umilmente, gli usciva il fumo dalla bocca.
- Io sono Ser, detto Pin, ed ho sempre sognato di
combattere, di andarmene via di qua, da questa terra sterile e morta... E so
usare comunque un po’ tutte le armi sa! E poi sono del luogo e ti potrò
aiutare! Conosco un mucchio di scorciatoie! - Lancillotto lo squadrò: Ser era
vestito di stracci ed era molto magrolino, ma aveva gli occhi ingenui, neri
come la terra bagnata e poi il cavaliere aveva così voglia di raccontare a
qualcuno la sua avventura che lentamente annuì.
Ser, detto Pin,
aveva un vecchio motoveicolo arrugginito, pieno di leve, molle, ammortizzatori
che a spirale s’incastravano tra di loro, e poi due tubi di scappamento enormi.
Non si sapeva, per la verità, come facesse a procedere con un simile
marchingegno, ma in quell’epoca la meccanica, l’elettronica, la chimica,
sapientemente utilizzate, facevano prodigi... Il ragazzo infatti, prima di
partire, aveva fatto cadere qualche goccia verdognola e densa nel motore. - E’
la linfa! - grugnì sorridente e così il cavaliere si accorse che aveva tutti i
denti neri, marci.
- Conosci Ginevra? - chiese Lancillotto, mentre
procedevano. Questi scosse il capo energicamente.
- E’ la donna più bella della terra, ma non è mia moglie,
è moglie di un altro... Di un uomo potente...-
Pin lo fissava e pareva assorto in quei suoi occhioni umidi. Il
cavaliere era già innamorato. Pin sospirò perché era una ragazzina e il
cavaliere non se n’era neanche accorto.
Ginevra era
appoggiata alla finestra e con le mani lunghe e pallidissime toccava
nervosamente le inferriate, nere anch’esse e contorte come rovi fossilizzati.
Sbuffava e poi faceva freddo in quel palazzo! Andava ad attaccarsi al termosifone
che era sempre tiepido... Ma continuava a sbuffare. Non capitava mai niente lì.
E sognava la città, con le sue vie piene di traffico, di fumi, di persone
diverse, di odori speziati, forti. Ginevra aveva 17 anni, ma sembrava ancora
più piccola; aveva il naso minuscolo, le labbra capricciose, le sue
sopracciglia erano come ricami arcuati castani. E i suoi capelli erano
lunghissimi, avvolti in decine di trecce scure. Si guardava in uno specchio coi
bordi percorsi da venature verdi, segni di frattura, e con un rossetto rosso
sangue tracciava contorni sbagliati alla sua bocca. Improvvisamente lo morse e
lo sputò.
- Sembra un dito tagliato! - si diceva da sola e rideva,
rideva molto sguaiata con quel moncherino di rossetto che sbavava sangue sul
ripiano, anch’esso fatto di cristallo. E s’incantava... I suoi occhi si
fissavano su quell’immagine e sfocavano tutti i contorni delle cose.
Rivedeva così
Tristania, la grande città, rivedeva i palazzi antichi, con le decorazioni
barocche incrostate di nero, rivedeva le finestre enormi, vuote che a tratti si
aprivano, con un tonfo sordo di vetri. E rivedeva ancora una volta lui nei
bassifondi, mentre sorseggiava un whisky e la guardava. Ginevra non aveva mai
visto uno sguardo simile. Fu presa quasi da un raptus per quel ricordo, la sua
faccia si raggrinzì, le sue mani si chiusero nervosamente. Le unghie nel palmo
facevano un po’ male. Doveva risentire tutta la storia e del resto, per lei
ora, non c’era altro che quello. Si rilassò e iniziò a raccontare tutto allo
specchio.
- Pioveva - bisbigliò con la sua voce acuta - ed ero
scappata un’altra volta da casa. Mi ero messa i tacchi alti e una parrucca
arancione perché avevo voglia di apparire più bella di com’ero in realtà e poi, comunque, mi
cercavo e non sapevo quale fosse la mia identità. Rivedo i miei stivaletti di
velluto marrone sul marciapiede lucido di acqua e risento i miei passi... Avevo
voglia di trasgredire, osservavo le pareti annerite dai fumi, cercavo luci
nelle case, musica, parole e voci, rincorrevo golosa ogni forma di vita. E
finalmente avevo scorto una porta illuminata di azzurro-acqua che mostrava una
scala in discesa. I gradini erano di pietra, sembravano scavati nel tufo di
qualche vulcano sotterraneo. Là sotto c’era un locale con poche persone,
qualcuno ai tavoli, qualcun altro al bancone.
- Dove mi trovo? -
mi dicevo ed ero elettrizzata. Un uomo di colore suonava il sax su un palchetto
ed io osservavo il suo strumento e quasi mi sentivo diventare musica. Ma poi...
- e qui Ginevra si fermò per un istante - Poi un qualcosa mi turbò, mi voltai a
destra, lentamente e vidi un ragazzo dai capelli folti e scuri che mi fissava.
I suoi occhi erano come smarriti, incerti, eppure taglienti. I suoi occhi
parevano ora solchi, ora pupille nere di corvo. Di fianco a lui c’era un altro
uomo, più robusto, col volto squadrato: anch’egli mi guardava, ma in modo
scettico, scuotendo il capo e tirandogli gomitate. Io so cosa gli diceva -
Lasciala perdere! Non vedi che è una bambina! -
Ma egli ormai era
perduto... - sussurrò la ragazza e la sua voce quasi parve annegare nella sua
gola. Tirò indietro la testa e socchiuse gli occhi... Rivide Lancillotto che
posava la pesante spada di fianco a Parsifal e si muoveva verso di lei.
- Ne vuoi - disse porgendole il suo bicchiere.
Lei annuì e bevve tutto il suo whisky, di colpo, e poi lo
guardò sfrontata.
- Lui è stato, per me, l’errore - spiegò allo specchio
Ginevra, ed il suo occhio sinistro parve un opale incastonato nel suo viso,
umido.
- La nostra storia era sbagliata in partenza - spiegò
Lancillotto al suo scudiero, mentre tentavano di accendere il fuoco per la
notte - E l’avevo capito subito... Anche quella prima sera, nella Città
Vecchia... Perché aveva sul viso un segno trasversale, come l’impronta di un
artiglio: sentii che era, a me, proibita. Ma quella notte non capitò nulla tra
noi... Parlammo poco e ci osservammo a lungo, attraverso quelle luci incerte.
Ti sembrerà strano Ser, ma io sapevo che l’avrei rivista. -
La voce del
cavaliere era calda e conservava in sé un’intonazione epica. Pin lo guardava
attraverso la fiamma: lui era un’immagine scura e dietro, un pruno dai rami
contorti e neri era come la ramificazione dei suoi capelli. Pin rabbrividì.
- La rividi a casa del suo nuovo marito: ovvero del mio
padrone - e qui il suo parlare divenne per un istante stonato.
- No! - mormorò Pin.
- Ginevra scendeva lentamente le scale del suo
appartamento, molti non avrebbero di certo visto in lei la ragazzina dalla
parrucca rossa, ma io sì...
Aveva un abito attillato, viola e verde con scaglie di
serpente, e i suoi capelli erano scuri, avvolti in un complicato fermaglio di
pietre dure.
Il Signore stava seduto al suo tavolo di marmo nero e
batteva col dito medio il piano. Lei seguiva il suo ritmo, mentre faceva quegli
scalini. Avevo sempre venerato quell’uomo: in quel momento invece mi accorsi
che l’odiavo. E odiavo quel suo anello di platino che, come una serpe,
stringeva il suo dito più lungo, rosso e grasso.
Ginevra, quando si fu avvicinata a me, incominciò a
balbettare e i suoi occhi si riempirono di ombre e luci che si muovevano. –
Pin si era così
immedesimata nel racconto che non sentiva quasi più freddo. Il piccolo focolare
che era riuscita ad accendere era un misero bagliore rosso nella notte, ma ecco
che, ascoltando Lancillotto, quella modesta luce si allargò e Pin vide la
stanza illuminata a candele del re e della regina, scorse il riverbero delle
squame sul corpo di lei e il suo viso, minuto sotto quella massa di capelli e
sassolini rocciosi.
- Fu una cena terribile per me! –
mormorò lui – c’erano tutti i cavalieri,
tutti attorno alla grande tavola nera, ed io, poco distante da lei, guardavo il
piatto con i calamari annegati in un sugo di muschio, pieno di conchiglie vuote
che si riempivano di gocce verdi e sentivo che anche i miei occhi erano umidi…
Non dissi una parola, e lei neppure. Così: circondata dal chiasso dei discorsi
altrui in un istante lei si alzò e mormorò soltanto – Con permesso –
La seguii dopo qualche momento spiegando che
dovevo andare in bagno; uscii dal salone dove le ombre parevano liquide e in un
anfratto, al buio, la vidi. –Ssst – fece
lei. Io mi nascosi nella sua tana
mentre lei si toccava nervosamente i capelli. Staccava dalla sua criniera le
pietre verdi e poi le guardava con gli occhi vivi pieni di riflessi e pagliuzze
d’oro. La mia mano sfiorò la sua gemma più grossa. Lei rabbrividì. Io allora la
strinsi più forte, fino a che le sue asperità mi fecero male. A Ginevra pareva
mancasse il respiro.
– Ma – fece Ser, corrugando la
fronte scura.
- Così non vi siete mai baciati!? –
Lancillotto sorrise – Certo… Da allora diventammo amanti
–
- E il tuo padrone? –
Il cavaliere
gettò un sasso nel fuoco con ira e Pin si impaurì vedendo volare mille
scintille nell’aria. – Ricordati – ringhiò Lancillotto con una voce
sotterranea, che non pareva neanche sua
– che io non ho padroni! –
Lancillotto e il
suo scudiero procedettero per giorni e giorni, attraverso sentieri tra i campi
grigi, foreste dagli alberi morti e piccole città… Ognuno di questi paesi
assomigliava a Tristania: qua e là un orologio antico, una piazza, un palazzo,
richiamavano dolorosamente la metropoli, quasi fossero un riflesso di essa in
uno specchio opaco. Il cavaliere ogni tanto s’incantava nel fissare un qualche
particolare, ma poi subito si scuoteva e spronava Arturo.
Lancillotto era
diventato sempre più silenzioso e Pin, smaniosa di vivere, talvolta si annoiava
anche con lui, come coi suoi fratelli quando andava nelle campagne, per il
raccolto. Eppure non riusciva a lasciarlo andare per conto suo… Si rendeva
conto, ora dopo ora, che anche il suo silenzio o i suoi modi bruschi da cane
rognoso, le erano diventati unici e indispensabili.
- Arturo! – gridò una mattina
Lancillotto.
- Che hai! –
Pin si voltò e si accorse che il cavaliere era indietro. Il cavallo era bloccato. Lancillotto scese e
provò a tirarlo dal muso. La nebbia si addensava e, qua e là, emergevano dal
bianco di perla rami di meli selvatici. Pin si avvicinò e vide il volto di
Lancillotto indurito e più scuro come una corteccia.
- Cos’è successo? – gridò con la sua
voce da gazza.
Il giovane alzò semplicemente la palpebra ad Arturo, ma
l’occhio era solo più una sfera bianca, asciutta.
Agitato allora diede un calcio al ventre del
destriero. - No! – gracchiò Pin mentre
dalla pancia usciva un filo di olio tiepido.
Ser con i suoi
guanti rotti, da cui sbucavano le dita, provò a svitare i bulloni che
chiudevano il ventre maculato, ma all’interno gli ingranaggi erano corrosi e
una patina di gelo aveva fossilizzato i vasi sanguigni e il cuore che sembrava,
a quel punto, una prugna seccata in una ragnatela di neve.
- Aiutami a scavargli una tomba –
sussurrò Lancillotto- E poi vai via, sii
libera e non tornare indietro, se non ti va – Pin allargò i suoi occhioni neri,
le sue labbra tutte screpolate dal freddo, rimasero storte per un istante. Lui
alzò lo sguardo e le sorrise piano.
Si alzava la tormenta quando i due ebbero terminato di
seppellire Arturo. Fiocchi di neve vorticavano in gorghi concentrici e anche
gli alberi sembravano ormai solo più carcasse legnose.
- E’ distante la Gorra ? – fece Ser.
- No… - mormorò il cavaliere
- Be’ allora voglio venirci
anch’io! – protestò lo scudiero con un’espressione da scoiattolo.
Ripartirono solo più con la vecchia
moto di Pin, tutta molle e bulloni e, anche se ormai era quasi notte, non si
fermarono.
Il potente
Artù aveva indetto un ricevimento per quella sera, erano stati invitati tutti i
combattenti eccetto Lancillotto. Si sarebbero anche presentati i funzionari e
gli addetti ai servizi speciali. Nel castello quel giorno, quindi, c’era
fermento: le serve lucidavano il grande pavimento della sala, i cuochi erano
già tra le pentole ribollenti, i camerieri andavano di qua e di là,
agitatissimi.
Il re era nella
sua stanza semibuia davanti al suo schermo televisivo incassato in una parete
di lava nera. Le tende di velluto erano abbassate e lui si toccava nervosamente
il suo anello: un serpente di platino che soffocava il suo dito medio, ma no,
non poteva toglierselo. La serpe aveva in bocca una pietra nera senza riflessi.
- Ginevra – la chiamò lui, con una
voce rauca
- Perché non vieni un po’ qui con
me? Cambiamo programma se ti va –
Lei spuntò da dietro le tende, con una mossa agitata, e
si avvicinò a suo marito: sembrava sua figlia tanto era minuta. Aveva la
vestaglia di broccato rosso scuro e si era truccata, di nuovo, in modo pesante.
Del rimmel le colava persino un po’ sulla guancia. Lei gli accarezzò la folta
barba con gesti rapidi e sgraziati, lui allora, deluso, la spinse via facendola
cadere per terra, sul tappeto persiano.
C’era un arabesco blu cobalto su fondo rosso, Ginevra lo
fissò a lungo dicendo a sé “dormi bambina dormi …Non pensare a niente…Dormi e
ti ritrovi pura come il mattino di perla” ma appena chiuse gli occhi, pianse.
Quando Lancillotto entrò nella sala illuminata, con a
fianco un ragazzo di campagna tutto stracciato, molte voci si zittirono e gli
sguardi andarono al padrone del castello seduto in un angolo buio. Ma egli non
disse nulla. Ginevra era nascosta sotto il tavolo, non si sa per quale strano
motivo, e quando udì quel silenzio improvviso sbucò da sotto la tovaglia
smerlata, con il cuore che le batteva fortissimo.
- Non penserete - tuonò ad un tratto la voce di Artù -
Lancillotto di presentarvi qui stasera, senza che io mi ritenga offeso - Pin
rabbrividì e per un istante le parve che
i presenti avessero addosso veli spessi di ragnatele. Lancillotto aveva
rughe più profonde vicino agli occhi.
- Immagino che voi siate qui per duellare - continuò
stancamente Artù.
La musica venne alzata di volume: era un ritmo
elettronico cadenzato, i paladini si guardarono tra loro, a disagio, Pin
fissava sgomenta lo stemma della Gorra: un viso enorme di gatto attaccato in
mezzo alla parete centrale, i cui occhi di ambra vibravano alla luce azzurra
dei fari.
- Combatterete con la mia nuova creatura - spiegò il Re
prendendo un telecomando che aveva in tasca.
Dalla scalinata di pietra scendeva a passi lenti un
cavaliere con un’armatura porosa che pareva fatta di pomice.
- No... No....No... - gridò come una bambina Ginevra,
camminando a quattro zampe verso Lancillotto e lui solo allora la vide! La
fissò e i suoi occhi sembravano incrostati di resina.
- Portate via la regina! - ruggì Artù, alzandosi dal suo
trono e quattro servitori la presero di peso mentre lei si divincolava come una
tarantola aliena, dai tessuti d’oro che frusciavano e si strappavano qua e là.
Lancillotto allora, sguainò la sua vecchia spada e si
lanciò contro al cavaliere senza nome, urlando come un pazzo.
Il combattente
del re era molto abile e poi la sua spada mandava bagliori azzurrognoli come
onde marine nel piombo, ogni volta che era colpita; ciò stregava quasi
l’avversario. Ser era accucciata in un
angolo della sala e tremava, i paladini erano preoccupati, Parsifal intimava al
re di essere clemente col suo ex amico.
- E sia! - esclamò ad un tratto Artù e l’unica cosa che
si vide fu la sua mano grande, squadrata con l’anello nero. Il cavaliere di
pomice si bloccò, ma Lancillotto era ancora preso dal suo slancio e così gli
mozzò la testa.
- Colpo scorretto - si udì da più voci - colpo scorretto!
-
L’elmo era rotolato per qualche metro e aprendosi aveva
mostrato un volto di donna con fili d’argento che le partivano dalle orecchie:
era una copia di Ginevra. - Cos’ho fatto mio Dio! - pensò Lancillotto che non
riusciva più a collegare le cose. Ma la testa tagliata, con l’elmo roccioso,
aveva cavi e conduttori elettrici che le uscivano dal collo... E poi una patina
di liquido scuro, denso, che si allargava sul pavimento lucidato a specchio.
Pin trascinava il
suo motoveicolo nella nebbia. Lancillotto la seguiva lento, a passi pesanti.
Pin pensò che egli dovesse avere allucinazioni, perché talvolta
s’illuminava trasaliva o si voltava di
colpo. Ma, ad un tratto, fu lei a gridare, spaventata, e per poco non fece
cadere la sua moto. A pochi passi da loro, sul bordo del sentiero innevato,
c’era una statua di ghiaccio a grandezza naturale, piena di cristalli verdi e
grigi come vetro. Era Ginevra, bella come un insetto dentro l’ambra.
“Io
ho seguito i tuoi sospiri.
Ho
visto i fiocchi farsi merletto
la neve farsi lacrime
Io
ti ho inseguito per tutte le strade
cercato in ogni ruscello
in
ogni riva e anfratto
Ma tu
eco
ti
sei perso nelle grotte cave.”
Lei gli disse coi suoi occhi che parevano sciogliersi in rugiada.
- No - bisbigliò lui - non è morta - e i suoi capelli
erano mossi dal vento. Pin era incantata
davanti alla bellezza di quella fata ghiacciata e non sapeva se crederci. Si
sfregava gli occhi. Del muco le usciva un po’ dal naso. Ma poi udì come una
musica.
“L’arabesco
cobalto su fondo rosso”
e s’impaurì, indietreggiando di qualche passo.
Lui invece non si spostava ed anzi sfiorava con un dito
le labbra bianche di lei, al di là delle vene azzurrine di ghiaccio.
Tristania. La
città vecchia era un pullulare di voci sommesse. Il piovischio imperlava le
bancarelle sparse, le cupole delle moschee, i cappelli a larghe falde dei cinesi...
Ziang rimescolava assorto il suo pentolone d’alluminio. Era riso al curry e il
vapore si alzava in fumi densi. Un esserino magro e stracciato gli si avvicinò.
Aveva gli occhi incrostati di secrezioni verdi, doveva avere una pessima
congiuntivite.
- Cerco Ziang! - esclamò il ragazzo.
L’orientale annuì.
- Sono Ser - piagnucolò l’altro - conoscete Lancillotto,
vero? -
L’odore di spezie era fortissimo e una triglia fissava
curiosa, con la sua bocca ramata aperta, Pin.
- E’ rimasto solo questo del cavaliere! - gridò quasi Ser
e porse al vecchio cinese un lastrone di ghiaccio con dentro un ramo di melo
selvatico, come una vena o un lampo.
Ziang allargò le sue pupille socchiuse.
- e questo di Ginevra - mormorò Pin, mostrandogli un’altra
lastra trasparente con all’interno un grumo scuro di capelli attorno ad una
pietruzza rocciosa.
Pin piangeva e non riusciva a smettere, guardando la
triglia con le sue squame lucenti e il viso rugoso dell’anziano.
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