Aicha era scappata un'altra volta. Doveva smetterla di fuggire da se stessa e da ciò che provava. Doveva avere il coraggio di guardarsi allo specchio.
Ma la guerra l'aveva uccisa tante volte e Aicha aveva paura.
I suoi occhi grandi, la bocca dischiusa in un sorriso antico, la pelle troppo scura per essere come loro.
Aicha scappava quando il dolore le entrava dentro e traboccava.
Usciva di casa e tornava dopo qualche ora, nessuno le badava del resto.
Aicha era sola, ma aveva un mondo immaginario in cui si rifugiava e lì trovava un pò di pace. Disegnava castelli impenetrabili ai margini di foreste oscure, disegnava creature sotterranee o sirene con capelli di fuoco. Un universo muto e fluttuante in continuo mutamento. Disegnava su piccoli quaderni di basso costo, le pagine sgualcite dalle lacrime e dalle attese.
Aicha non voleva ricordare il viaggio, quando le chiedevano da dove venisse lei inventava qualche sciocchezza, il suo passato era murato.
Il suo passato era dietro una porta chiusa a chiave dall'interno. E lì sarebbe restato a lungo, forse per sempre.
Fino a che la lingua, che aveva appreso con così tanta fatica, non le diventò amica. Aicha allora iniziò a scrivere in italiano, i suoi genitori non sarebbero stati in grado di capire, non fino in fondo almeno, e poi comunque non avrebbero mai letto quei quaderni.
Aicha così scoprì la scrittura. I suoi diari si riempirono di parole, di pensieri, di paure che sbocciavano come fiori crudeli.
La scrittura era la sua maledizione e la sua salvezza, scrivendo Aicha diventava un'altra, indossava tutte le maschere che voleva ed entrava nei suoi castelli immaginari.
Non più solo disegni, ma anche racconti, riflessioni, poesie, trascrizioni di sogni.
Forse un giorno, facendo finta di essere un'altra, avrebbe anche potuto raccontare la sua storia. Avrebbe aperto quella porta. E il buio, forse, non le avrebbe fatto così male.