L'universo si apriva ogni notte e respirava piano, fuori da casa mia. L'universo era fatto di stelle brillanti nel nero, di grilli che cantavano nascosti nella notte.
Io non avevo paura del buio.
Forse per il mio nome, Stella.
Abitavamo in una cascina in mezzo ai campi di grano. Lavoravamo molto, arrivavamo alla sera stanchi e guardavamo quei puntini luminosi senza pensare a niente.
La guerra non era lontana. Vedevamo passare i caccia, un suono troppo forte per il nostro cielo fatto di nuvole e silenzi.
Era un autunno caldo e ventoso.
Io mi occupavo delle galline e dell'orto. I miei due fratelli invece andavano nei campi con mio padre. Mia madre era in città per delle cure. Ci tenevano all'oscuro da ciò che accadeva, ogni giorno era un mistero.
Il mondo si sbriciolava lentamente, pezzo dopo pezzo, nazione dopo nazione, nascevano muri, confini, ghetti. Cresceva la paura per tutto ciò che era diverso. E c'era la grande depressione.
Nonostante tutta quella stanchezza io talvolta, la sera, scappavo da casa per vedere Kim. Dovevo stare attenta, perché la notte le strade del paese erano deserte e pericolose. C'erano i lupi e i cinghiali, nessuno usciva, le luci delle strade venivano spente per risparmiare l'energia elettrica. Solo la Luna mandava un bagliore, quando c'era.
Eppure io e Kim rischiavamo spesso, per vederci. Kim era come un pezzo di me, come una gamba o un braccio che non puoi staccare dal tuo corpo.
Eravamo stati compagni di classe, quando ancora le scuole erano aperte. Poi le avevano chiuse in tutto lo stato, solo i ricchi potevano mandare i figli a scuola, noi eravamo poveri, saremmo diventati tutti contadini o artigiani.
Eppure io e Kim volevamo studiare. Ci vedevamo alla sera. Dietro alla stalla dei suoi genitori c'era un capanno di legno con gli attrezzi da lavoro, i rastrelli, le vanghe, le zappe. Io e lui con le nostre pile leggevamo e parlavamo. Eravamo pieni di sogni. Lui mi aiutava a vivere ogni giorno.
Ci piaceva studiare storia, perché volevamo capire come mai fosse tornato il caos nel mondo. Disegnavamo mappe, formulavamo ipotesi. E poi lui mi aiutava a studiare inglese. Era una lingua complicata per me e lui, con pazienza, mi faceva ripetere alcune frasi per memorizzarle.
- Dobbiamo fuggire - diceva.
- Passare il confine, andare verso il mare -
Io allora lo guardavo, guardavo i suoi occhi scuri, le mani piene di calli, la cicatrice che aveva sulla guancia destra e pensavo che lo avrei seguito dovunque, senza esitazione.
Una sera mi accorsi che anche lui mi guardava e i silenzi si allungarono. Non eravamo più bambini, cosa avrebbe detto mio padre se mi avesse scoperto? E i miei fratelli? Non volevo pensarci.
Ma perché non parlava? Perché sentivo una fiamma risalire dentro il corpo e bruciare piano, come una pianta inerme in un incendio?
Ne ebbi paura, farfugliai qualcosa e me ne andai.
I campi erano avvolti nel buio più totale, le stelle brillavano, soli lontanissimi, perduti nell'universo. Qualcosa si muoveva nell'oscurità. Avevo paura, ma dovevo andare avanti. Una volpe si rifugiò in un cespuglio, la vita brulicava nella notte, creature misteriose si muovevano attorno a me, lo percepivo.
E qualcuno o qualcosa mi stava seguendo.
Mi voltai di scatto e mi ritrovai tra le braccia di Kim.
- Non andare via - mi disse.
Non eravamo mai stati così vicini, sentivo il suo alito, era caldo.
Lo strinsi forte.
Eravamo parte di un tutto che ci sovrastava, come lo era la volpe lì vicino, come i lombrichi sotto la terra, gli scarabei, il noce, le galassie, il respiro del mondo.
Era inutile scappare, dovevamo solo ritrovare la strada perduta.
Ci baciammo e scoprii che il mondo aveva un senso imprevisto, sconosciuto. C'era il rosso nelle cose, c'era la luce nel cielo e nell'acqua, c'erano infinite geometrie negli occhi delle persone, c'era il calore della sua pelle e io, fino ad allora, ero stata così lontana dalla conoscenza.
Non avevo più paura.
La notte diventò luminosa.
Presto sarebbe arrivato il giorno.
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