Dedicato a papà.
“Ses purs ongles très haut...” Mallarmé.
La notte
le stelle si aprono come
fiori di luce
sono gocce che
brillano su un soffitto altissimo
e, a volte,
sembra che si stiano per staccare
e cadere giù.
Come una pioggia magica.
Notte. Non c’è altro che notte per me, da che sono piccola, da che mi
ricordo. Adesso ho quasi diciotto anni e
ho deciso di scrivere le mie memorie, per ingannare il tempo, giacché ormai il
tempo comincia a pesarmi, in questo ticchettare lento di pendoli. Sì, perché
nell’Osservatorio, dove io abito con mio padre, vi sono vari tipi di pendoli,
orologi impolverati che battono senza posa di giorno e di notte. E uno segna
l’ora di Amsterdam, un altro segna quella di Parigi, un altro ancora quella di
Timbuctu... Perché, come dice mio padre, “Occorre sempre essere in linea con
l’universo” e l’universo, si sa, parte dalla Terra.
Talvolta mi soffermo a
contemplare il quadrante di vetro di qualche orologio e lascio scorrere il dito
su quella superficie. Chiudo gli occhi e la polvere diventa una carezza leggera
d’aria. Disegno geroglifici incomprensibili anche a me.
Ma forse, l’oggetto
preferito dall’Astrologo - mio padre - è la grande clessidra che volta e
rivolta nei momenti di massima concentrazione. La sabbia, che a me fa pensare a
deserti lontani, scivola nell’imboccatura stretta e la luce debole della
lanterna vi proietta sopra ombre mutevoli come fiamme nere che danzano.
Mio padre è un grande
studioso delle stelle e così io e lui vegliamo tutta la notte; la nostra vita è
scandita da un ritmo diverso rispetto a quello delle altre persone: il ritmo
inesorabile delle onde del mare, del gocciolio del rubinetto rotto, del ruotare
lento delle luci, lassù. (29 Novembre 1999)
Cassandra scriveva nella penombra e i
ricordi e le immagini le affioravano sconnessi e disordinati sulla pagina un
po’ ingiallita di un vecchio quaderno a righe. La sua grafia fluttuava dal
basso verso l’alto in allunghi diseguali e lo slittare del pennino era l’unico
suono percepibile, nella stanza. Un
grosso gufo l’ osservava dal trespolo legnoso, poco lontano da lei e lei,
talvolta, alzava il viso bagnato di luna verso Ask (così si chiamava il rapace)
ed entrava nei suoi occhi gialli come soli ghiacciati.
- Aschi - sussurrava allora,
con una vocetta incerta
- ti annoi? -
Ma il gufo non accennava alcuna espressione
attraverso il suo piumaggio scuro, lucente, che pareva raccogliere tutti i
colori delle foreste notturne, intricate di rami, spine e lance arrugginite di
guerrieri.
L’astrologo era chino sul suo telescopio
puntato verso i raggi di gelo delle costellazioni.
- Cassandra! - chiamava, con
una voce roca che sembrava provenire da antri di roccia spaccata.
- Cassandra! Scrivi questa
formula! - e i suoi capelli d’argento, sotto la luce della lucerna ad olio,
erano come il vello di un animale delle nevi.
Lei, allora, si alzava da terra e sgattaiolava verso il padre, fisso
sulla sua sedia d’acciaio, e scriveva ciò che la voce sotterranea le dettava.
(30 Novembre 1999) Il mio papà non cammina più da anni, a causa
di un incidente terribile che lo paralizzò. Eravamo in macchina io, lui e
mamma. Pioveva a scrosci violenti, improvvisi. Un’ auto sbandò, i vetri si
frantumarono con un grido di mille voci. Mamma morì e papà non camminò più.
La stilografica si fermò. La sua mano era come una ninfea sfiorita, umida di sudore freddo. E i suoi occhi castani, severi ed
ardenti, scivolarono verso l’Astrologo e le sue gambe, coperte da una pesante
trapunta.
- Arriveranno - sospirò lui
con una voce subacquea. Cassandra sapeva che parlava di “presenze esterne”
provenienti dal cielo.
- Tu che ne dici? - le
chiese lui, guardandola per un istante, intensamente. La sua barba, sotto la
luce del firmamento era simile ad un prato d’inverno, incrostato dalla brina,
ma i suoi occhi erano mansueti, come quelli dei cani randagi.
- Allora? -
- Non saprei... - balbettò
la figlia, ingobbita come una vecchia civetta. La ragazza si incupiva quando
suo padre le si rivolgeva in quel modo. Sembrava aspettarsi sempre una
rivelazione da lei. Forse a causa del suo nome.
(30 Novembre) Mia nonna si chiamava Cassandra ed era una
sensitiva. Asserì che sua nipote avrebbe salvato il pianeta con una profezia...
Per questo lui attende... Attende cosa? Io non sono niente e lui non lo vuole
capire. Sono solo un’anima che ha voglia di esplodere. Talvolta mi prende una
frenesia inconsulta e mi metterei a gridare, a spaccare tutti i pendoli, a
ridere a squarciagola, scendendo di corsa le scale del torrione, precipitando
giù. E invece sto zitta e faccio finta che tutto vada bene. Sfoglio gli atlanti
celesti, con le costellazioni segnate e la voglia di piangere che mi forma un
nodo, come se avessi un polipo dentro la gola.
Talvolta Cassandra invidiava
Ask che, di notte, apriva le sue ali piene di tutte le sfumature del buio, e se
ne volava via, “per chissà quali avventure” pensava lei, corrucciata, e allora
si arrampicava sulla balaustra e, accovacciata come un corvaccio, fissava ogni
più minuto particolare delle case al di sotto, deserte nell’azzurro stinto dei
loro muri. I radi alberi si muovevano leggermente al vento, come scheletri
neri, e il mare, in fondo, non era mai uguale.
Poi Ask tornava, maestoso e
più bello di prima, e lei lo guardava ammirata. I suoi occhi, allora,
brillavano di una luce calda e ansiosa.
La torre era adibita, oltre che ad
Osservatorio, anche a prigione locale. Vi erano tre stanze in tutto per piccoli
criminali, vecchi ubriaconi del paese, per lo più, o svitati che vi tornavano
periodicamente. Questi personaggi, per Cassandra, erano molto interessanti e,
tra l’altro, incarnavano la sua unica distrazione: tutte le sere era infatti
suo compito portar loro la cena.
(20 Dicembre) Vincè, il pescatore, è stato qui per soli due
giorni. Mi dispiace che se ne sia già andato, perché mi piace molto
chiacchierare con lui. Mi racconta ogni sorta di avventure che ha vissuto per
mare... Le sue rughe, talvolta, sembrano nascondere un qualche mistero
insondabile. Le ombre difatti, gli scavano la faccia come una prugna
rinsecchita, bruna e cotta dal sole.
- Tu Sandrina - mi dice sempre
- devi farti un po’ più vedè al paese, che manco sanno come sei fatta i
guagliò, laggiù... Te ne stai sempre nascosta in questa galera... E poi ti stai
curva e sei sempre più magra e nera...-
- quasi me sembri una gazza! - conclude poi aprendo la sua bocca
piccola, disidratata. E ride col suo sorriso nero (poiché è senza denti) ed io
invece mi mortifico e mi mordicchio le unghie. So che Vincenzo ha ragione, ma
so anche che lui non può capire... Il mio ritmo vitale è ormai regolato a
quello di mio padre, al suo silenzio, al ronzio della sua sedia a ruota e al
suo sguardo che si dilata quando alza gli occhi. Forse nessuno mi può capire. E
il cielo notturno, talvolta, mi sembra trafitto e pieno di piaghe. Le stelle
sono come stalattiti corrose di luce che pendono verso di noi, acuminate.
L’astrologo segnava sulla carta dei cerchi
concentrici e tracciava dei numeri accanto.
Poi si voltava lentamente e spiava
la figlia che parlocchiava sottovoce col gufo. I suoi occhi si riempivano per
un istante di bagliori lontani
- E’ ancora una bambina -
pensava, quasi rincuorato, ma qualcosa dentro lo pungeva.
- Non andartene più -
bisbigliava Cassandra, rimproverando Ask.
- Non devi lasciarmi più
sola -
Qualcosa turbò comunque, la quiete siderale
della torre, nonostante gli sforzi del padre. Qui infatti, fu imprigionato un forestiero,
capitato nell’isola non si sa per quali traversie. I secondini sostenevano che
era lì solo provvisoriamente. Cassandra appena lo vide nell’azzurro della sera,
trasalì. Una vena di ghiaccio le attraversò la schiena.
- La cena... - mormorò.
Lui si voltò di scatto. Aveva i capelli
piuttosto lunghi e i suoi lineamenti parevano scolpiti nel legno.
- Beh, che c’hai? -
l’apostrofò lui.
- Che stai a fare, dammi la
ciotola e sparisci -
Cassandra obbedì tremando,
posò il cibo nella cella e scivolò via per le scale, ma a metà strada s’infuriò
con se stessa e con lo straniero. Il suo primo sentimento fu l’odio.
Nei giorni successivi però, qualcosa mutò in
lei: i suoi capelli ricci diventarono setosi, il suo sguardo s’illuminava
improvvisamente come percorso da una scia dorata, i suoi gesti apparivano più
lenti, meno impacciati del solito. Nonostante questo, l’apparenza di Cassandra
era sempre quella di un’adolescente ossuta, dal naso adunco prominente e dalle
vesti arabescate assurdamente, come una dama fuori luogo e fuori dal tempo. Gli
abiti dai tessuti pesanti se li cuciva lei, in modo infantile così che,
talvolta, le si staccavano dei pezzi, anche solo facendo un movimento un po’
più affrettato.
(5 Gennaio) Si chiama
Rocco, ha qualche anno più di me ed è sconosciuto il suo luogo di provenienza.
Io suppongo però che venga dal nord... Lo noto dal suo accento. E’ difficile,
per me, descrivere l’avversione che provo per lui... Anche se devo ammettere
che in questi ultimi giorni è meno spavaldo...
Ciò non toglie che fatico molto a guardarlo, perché i suoi occhi hanno
la lucentezza ferrea delle spade. Fra poco dovrò scendere da lui, e il mio
cuore accelera i suoi battiti. Perché?
Odio l’amore, sentimento che non capisco e che trovo puerile. L’altro
giorno la lattaia ammiccava - E’ bello il prigioniero nuovo, eh Sandrina! - Eh
Sandrina cosa? Non sono riuscita neppure a risponderle e sono scappata come una
qualsiasi ragazzina innamorata. Non so, per la verità, se Rocco sia bello. So
solo che ora sono agitata e la cosa non mi piace per niente.
Notte - Non capisco cosa voglia
da me, anche lui! Tutti devono sempre pretendere qualcosa? - Cassandra si fermò. Tremava leggermente. La grande
mano del padre voltò la clessidra e la sabbia scivolò giù, nell’imboccatura.
E se ci fosse una conchiglia
una
pietra del deserto
la sabbia si
fermerebbe
in un istante
di
stelle,
come girini
nell’acqua
Rocco, dopo qualche giorno
di cella, si rasò i capelli. La lametta era consentita nella Torre. In fondo,
se uno avesse voluto farla finita, avrebbe potuto farlo tranquillamente, ma
questo non era il suo caso. Egli infatti, voleva vivere ardentemente (come
pochi altri, agli occhi di Cassandra).
- Perché ti sei tagliato i
capelli? - chiese lei, al di là delle sbarre, una sera.
- Perché loro mi hanno
tagliato dentro - rispose lui, con la
faccia indurita. E il suo masticare pareva una rivolta. A Cassandra piacque
molto quella frase, tanto che se la scrisse sul quaderno e, nelle ore eterne all’Osservatorio,
quando la rileggeva le ritornava in mente lui, accovacciato in un angolo, come
una roccia nel buio.
- Cassandra! - la voce del
padre usciva fluida dalla stanza immersa nella semioscurità. L’uomo-lumaca, con
la sua conchiglia pesante, si mosse dal terrazzo tempestato di stelle e si
avvicinò ad un viluppo di coperte disordinate.
- Cassandra... -
- E’ giunta la grande ora -
le sue labbra, tra la barba cespuglio, erano come petali rosa di un frutto
sottomarino. Cass le fissava istupidita, tra la massa di vecchie trapunte che
si era gettata addosso.
- Arrivano... Proprio come
avevo previsto. Ecco, si avvicina il grande incontro!!!- gli occhi
dell’astrologo erano piccole pozze di acqua ferma.
- Quando? - riuscì solo a
mormorare lei.
- Domani notte, secondo i
miei calcoli -
Silenzio nella soffitta. Ask
planò proprio in quell’istante e si appoggiò al parapetto di pietra, i pendoli
bisbigliavano. Cassandra parve fremere come un passero appena nato, nel suo
nido di stracci ed i suoi occhi s’indurirono come astri che ghiacciano.
- Bisognerà partire? -
chiese al padre.
- Certo! E’ tutta la vita
che ne parliamo! Loro arriveranno, io ho studiato i vari metodi di
comunicazione, mostrerò loro le mie carte... E poi, se ci vorranno, saliremo
sulle loro navi -
Le
navi? Fluttueranno tra gli strati di azzurro? E come saranno? Cassandra si alzò
da terra e si diresse verso il terrazzo. Le stelle erano croste di infinito e
le lacrime cadevano sul vetro, appannandolo.
(11 Gennaio) Non voglio
partire. Così, a questo punto, dunque, dovevo arrivare per rendermi conto di
quanto io ami tutto ciò che mi circonda, quaggiù. La caffettiera sporca, le
macchie di sugo di ieri sul tavolo, la pentola unticcia da lavare, le mie
pantofole corrose e gli scalini sdrucciolevoli scolpiti nella roccia che
scendono giù nel buio... Perché soltanto adesso me ne accorgo? E poi le scale
terminano in una stanza illuminata da una vecchia lampadina e lo sguardo del
secondino è ogni giorno leggermente diverso.
Se si svolta a destra appare la cella, con le sbarre fossilizzate in un
istante eterno. La finestra dà sul mare e l’azzurro, là fuori, è come uno
squarcio. E verso quel colore opalescente è diretto il suo sguardo, tanto che,
talvolta mi sembra di scorgere un po’ di blu nei suoi occhi, come un sospiro
d’aria.
Da bambina avevo sognato altri mondi, altri universi... Ora mi accorgo
di amare ogni istante nella sua semplicità, violentemente... Non posso perdere
tutto questo così, fra poche ore.
Cassandra posò la penna lentamente. Era come
se gustasse ogni gesto, anche minimo. Chiudere gli occhi , toccare la pagina
del diario con un’espressione rugosa sul viso... Ed ogni ruga era un
ricordo. Il sole calava nel mare e
spargeva sulla superficie dell’acqua riflessi verdi che vibravano.
Cass corse giù per le scale, precipitosa come
non mai. Un pezzo di manica le si staccò, e lei arrivò dal prigioniero con
un’aria grave. Nuvole grigie d’inverno si muovevano nei suoi occhi.
Rocco sorrise nel vederla e si accorse che
l’aspettava. I capelli di lei erano raccolti in un’astrusa treccia, come usava
di solito, ma nella luce di quel tramonto, questa gli parve ancora più
complessa, attorta, nera come un serpente o un giardino di rovi.
- Cavolo... - mormorò solo
lei, guardandolo e cercando di sistemarsi la manica strappata.
- Vuoi una sigaretta? - le
chiese Rocco, seguitando a sorriderle. Cass scosse il capo, cupa, gli occhi
gonfi di acqua di mare.
- Devo partire, forse,
stanotte - disse in fretta, con una voce soffocata, da insetto.
- Ah - Rocco non sorrideva
più.
- E dove vai? - s’informò
fissandole le mani che si annodavano tra di loro, grigiastre come ragni.
- Molto lontano... - sospirò
- Ma ecco io... Non voglio
partire più - e si confuse in quelle
parole, pensando di essere stata troppo ardita. Rocco si accese la sigaretta e
parve perdersi, aspirando, nella mare profondo e immenso, là fuori. Cass si
aggrappò alle sbarre. Le sue mani erano sudaticce e il ferro era freddo. Le
batteva il cuore fortissimo e poi il mare pareva colare giù dalla finestra in
un gocciolare lento di lacrime.
- Non voglio! - strillò
quasi, lei.
Il prigioniero si voltò di
scatto e la vide attaccata alle sbarre (quasi fosse lei la reclusa), le trecce
irte come penne di civetta o di aquila. E qui capitò un evento imprevisto:
Rocco si gettò verso di lei e le strinse le mani, premendo il suo corpo
sull’inferriata.
- Anch’io - disse
- non voglio -
Forse qualche paesano stava
cantando, là fuori, e l’odore delle alghe riempiva anche la cella di vita.
Cassandra era sbigottita e sorrideva debolmente, Rocco aveva raccolto nel suo
sguardo tutto il brillare dell’oceano.
(11 Gennaio: ore 21:25) Il secondino mi ha cacciata: mi ha preso dalle spalle, strappandomi
così un altro pezzo di abito e ha bisbigliato - Zozza vatinne, vatinne a casa -
Io mi sono voltata e ho visto quest’essere umido come un geco, le labbra
sottili come piaghe.
Mi ha spinto via. Mi sono trovata sugli scalini freddi di pietra che
salgono su al firmamento... Li ho toccati pensando alle mani asciutte di Rocco
che serravano le mie. Non riesco a piangere anche se vorrei; Ask mi osserva dal
suo trespolo e nei suoi occhi di ardesia mi rivedo rimpicciolita come in uno
scrigno. So che le sue parole sarebbero come gocce d’acqua lentissime nel
cadere e la sua voce sarebbe lontana e piena di echi, come quella degli
oracoli. A papà non posso raccontare simili sciocchezze (che lui giudicherebbe
estremamente puerili) in un momento simile poi, neanche da dire! E’ in attesa
al suo telescopio, e il cielo gli parla con intonazioni polifoniche che solo
lui può udire.
La grande cupola ruotava e gli istanti erano
granelli e battiti di pendoli. Cassandra si era rannicchiata ai piedi del padre
e lo fissava dal basso con i suoi occhi profondi da uccello. Avrebbe voluto
stringergli quei poveri piedi fermi, ma temeva qualsiasi movimento. La volta
d’un tratto, per la prima volta forse nella sua vita, le parve muta, col suo
manto bucato. Le stelle erano solo argento ossidato che trapelava dai fori. “Le
navi non arriveranno...” pensava e questa idea, a quel punto, non l’esaltava
più, perché vedeva l’astrologo farsi più curvo ad ogni ora. Anche Ask era
preoccupato e si era appollaiato sulla ringhiera con l’aria un po’ stupida e
impacciata da pollo e così, nella sua fragilità, Cassandra, si accorse di
amarlo ancora di più.
- Papà - azzardò verso
l’alba, lei.
L’uomo si voltò e i suoi
capelli bianchi erano quasi vivi, nell’aria.
- Papà, se non arrivano oggi
e non arrivano domani... Non ti devi preoccupare - Cassandra si sentiva, di
colpo, ispirata.
- perché loro sanno che
esisti -
Le iridi castane
dell’astrologo si allargarono.
Cassandra prese un grosso
foglio di carta arrotolato, lo spiegò sul tecnigrafo e si mise a disegnare,
rapita, cerchi enormi, complesse spirali e un cono capovolto che puntava verso
una sfera minuta.
Il padre quasi non ci
credeva e la guardava con, negli occhi, l’amore più grande che si possa
concepire.
- Cassandra... - bisbigliava
assorto
La voce si perdeva tra le foreste.
- Cassandra -
Lei pareva proprio contenta.
Posò la matita bagnata di sudore e sorrise come una bambina.
- E’ questo - spiegò lo
scienziato - il mio miracolo... Le navi possono attendere...-
(12 Gennaio: alba) Per ora, caro Ask, sono ancora qui, nella stanzetta
dell’Osservatorio... Non so per quanto, non so cosa ho scritto sul foglio che
ho dato a papà.
Ma qualcosa è successo; i miei capelli non si lasciano più intrecciare
e stanno come serpenti sulla mia testa, la mia espressione è mutata. Sì, forse
ho paura. Ma ora scenderò le scale buie e il secondino non mi fermerà, ora non
più.
Forse dovevo soltanto
sentirmi viva, per poter scrivere la voce delle stelle.
Ask aprì le sue ali grandi nella prima luce.
Cassandra protese la sua mano bianca, artigliata, verso il volto del rapace, ma
non lo sfiorò. Lo sguardo di lei tremò e, finalmente, pianse.
- Si... - mormorò. E le
penne del gufo le mostrarono l’arcano, il segno, il geroglifico, il labirinto
delle croste celesti. C’era un varco, piccolo, luminoso, e le unghie di lei lo
toccavano piano.
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