martedì 1 ottobre 2013

La stanza di Rowena

 
Rowena cuciva tutta la notte... Quello sapeva fare. Si sedeva vicino al camino e abilmente muoveva le dita e i fili di cotone colorati. Rammendava le stoffe preziose dei cortigiani e dei loro familiari. Rowena veniva dalla steppa. La sua casa, lo ricordava con precisione, aveva pareti blu stinte e persiane di legno verde scrostato. Nei pomeriggi d’estate, se la guardavi controluce, quella vecchia cascina pareva una foglia e gli alberi del cortile fremevano coi loro rami d’argento. Ma c’era stata la guerra e la fame... Anche Rowena era partita verso sud, come le sue sorelle.
    Lavorava di notte per far trovare pronti gli abiti il giorno successivo, all’alba. Ed io, talvolta, sgusciavo via dalla mia stanza silenziosa per guardarla imbastire gli orli nella luce calda del fuoco. Rowena era felice che io rimanessi lì a farle compagnia, si vedeva dal suo sguardo... Aveva gli occhi grigi che però, in certi momenti, rivelavano un luccicare d’oro.



    Io, in fondo, chi ero per lei? Il figlio viziato di un capo. Avevo i capelli morbidi, pettinati da mà, le mani bianche di chi ha sfiorato soltanto libri. Mi vergognavo di questo e così mi sedevo per terra, in ombra, e fissavo con estrema dolcezza le sue mani che, invece, erano vive e portavano tutti i segni del tempo. Rowena aveva mani scure, con le unghie corte e le dita forti, con pieghe di terra. Parlava poco, non sapeva bene la nostra lingua, ma talvolta cantava, mentre intrecciava velocemente fili bianchi che diventavano merletti, ricami di neve. La sua voce era un po’ stonata, per la verità, ma riusciva a farmi viaggiare con la mente. Io chiudevo gli occhi e vedevo la brina che copriva l’erba secca della steppa, vedevo un uomo nell’orto con una vanga e sentivo un vento freddo ululare nella landa. Poi mi riscuotevo e Rowena mi sorrideva. 


 


- Tu dormi? - mi chiedeva con un accento acuto e gaio (ma scorgevo una goccia d’acqua vicino al suo occhio).



- No - rispondevo arrossendo. Volevo baciarle quella mano piena di croci, ma non mi osavo. Perchè Rowena era più grande di me e aveva vissuto tanto più di me. Le guardavo per ore i capelli rossi, bruciati sulle punte. Mi ricordavano qualcosa che avevo perduto. Il fieno, forse, o le stoppie gialle del grano, o il sole rosso al tramonto, come un ragno di luce all’orizzonte. Ma non potevo dirle tutto questo, perchè lei si sarebbe offesa. E mi avrebbe detto - Tu?! Tu invidi me? - Quando lei aveva visto la guerra ed io, invece, l’avevo soltanto studiata o l’avevo guardata in televisione. La televisione era piena d’acqua. Se l’accendevi vedevi la morte dei pesci. Per questo non mi piaceva e mi rifugiavo nella stanza di Rowena, dai capelli crespi.



Lei, una notte in cui pioveva forte, mi confidò un suo segreto.
- Vorrei cucire così bene! - e si morse il labbro inferiore, bianco e screpolato.
- Vorrei costruire una città con la mia lana - asserì infine, guardandomi con gli occhi dorati, seriamente.
- Una città? -
Con una certa fatica mi spiegò il suo sogno: avrebbe voluto cucire case, alberi, palazzi di cotone e stoffe brillanti, imbastire una città viva, nella sua piccola stanza; una città costruita con l’amore e la pazienza.



Un paese di lana senza dolore.



- Nelle case di lana non si ha freddo - mi disse. Ma poi finì col sorridere alla mia faccia stupita. I suoi denti erano gialli e, in realtà, mi parve molto triste. Quel suo sguardo incomprensibile per me, allegro e feroce allo stesso tempo, mi spaventò.



Per qualche giorno non andai più da lei... Eppure non riuscivo ad ignorare la nostra sarta dell’est, a dimenticare la sua presenza.
Mi annoiavo in quei pomeriggi densi di nuvole. Per lo più guardavo il cielo dalle larghe finestre del salone. C’erano nubi enormi, draghi d’aria, bianchi e pieni di veli. Li fissavo con un po’ di preoccupazione, li vedevo crescere e trasformarsi, mentre i grandi stavano davanti alla TV, ignari di quell’inferno.
Nessuno parlava mai di Rowena e io soffrivo della sua mancanza. Papà e gli zii discutevano della guerra, eppure nessuno di loro aveva mai combattuto. Loro stavano ore davanti allo schermo acquatico, ma avevano mani bianche e molli come le mie.
- Sono mani colpevoli - pensai e mi veniva da piangere.



Quella notte stessa allora (era la terza senza di lei) fuggii dalla mia stanza tetra, dai mobili scuri ed enormi, e bussai alla porta dello sgabuzzino di Rowena.
- Chi è? - fece lei con una voce soffocata, pareva, da uno straccio.
- Sono io! - sussurrai. Il cuore mi batteva fortissimo e le gambe sembravano due tronchi di legno.


    Aprì e mi sorrise, ma i suoi occhi erano umidi e rosa.



 


- Oh, Jona, sono contenta di vederti - si passò velocemente un dito sotto le ciglia chiare e bagnate.

- Ti aspettavo… Guarda Jona - mormorò conducendomi vicino al camino. Sotto una vecchia sedia, nascoste da una pila di stracci e frammenti di stoffa, c’erano tre piccole case ricamate, cucite l’una vicina all’altra. Una di queste era blu, con le finestre verdi, come la sua cascina d’infanzia.
- Non scherzavi allora! - esclamai afferrandole, per la prima volta, una mano, rossa e umida come un cucciolo di coniglio appena nato.
- No - disse lei - e ne cucirò tante altre - spiegò lentamente. Io mi ero ipnotizzato guardando le sue labbra, dalla curva rosa, di petalo. E le scintille del camino erano stelle, quella notte, nella stanza di Rowena.
 

 

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