Io e le mie sorelle Maria e Giusy andavamo a raccogliere le mele, nei campi dietro a casa. Le foglie delle viti si facevano rosse, c'erano tracce di sangue anche dentro di loro.
Io mi sentivo in fermento, ma non volevo darlo a vedere. Dovevo dissimulare indifferenza, ma nel mio corpo fioriva una pianta spinosa, dai petali scarlatti. Era l'anima che tornava a palpitare, come all'origine della mia vita.
Durante l'infanzia il mondo era stato una continua scoperta per me. La linea dell'orizzonte che si confondeva con il cielo, i capelli ramati di mia madre, le sfumature impreviste del legno, la voce forte di mio padre, il suono della chitarra nelle sere d'estate. Tutto era scoperta, tutto era stupore ed io crescevo felice lontana dal mondo.
La mia famiglia aveva scelto l'esilio ed io brillavo in quell'incanto remoto.
I miei genitori erano fuggiti dal mondo e si erano rintanati sulla collina a coltivare mele e ortaggi, e a vendere l'uva alla cantina sociale. Io ero cresciuta così, con Maria e Giusy come uniche compagne di vita, insieme ai gatti, al cane e alle galline.
Tutto scorreva uguale lassù, le stagioni scandivano il tempo del lavoro, mia madre c'insegnava a leggere e a scrivere. Una volta a settimana scendevamo in paese e io e le mie sorelle guardavamo i ragazzi. Noi eravamo chiamate le tre streghe, ma questo non speventava i giovani, anzi li incuriosiva.
Alla festa di mezz'agosto io, Giusy e Mari ci baciavamo sempre con qualcuno e poi ne parlavamo a lungo tra di noi, nelle lunghe sere d'estate.
Ma tutto questo per me era sempre stato un gioco senza importanza. Un bacio sotto le stelle, una carezza nel prato e poi quel viso spariva nella nebbia dell'autunno.
Vivevo quegli avvenimenti senza trasporto, non ero come le mie sorelle che s'innamoravano e bruciavano internamente.
Io guardavo le stelle cadere e non esprimevo nessun desiderio.
Fino al giorno in cui conobbi lui. Era il nostro nuovo vicino di casa. Abitava nella cascina dietro alle vigne, insieme a suo padre. Si faceva chiamare Vic, ma il suo nome era Vittorio. Aveva la pelle bruciata dal sole, stava sempre nei campi, le braccia forti, lo sguardo liquido.
Avevo più volte provato a disegnarlo, ma non ci riuscivo... Mi sfuggiva sempre qualcosa di lui. Un'ombra o una luce negli occhi, non so dire.
Vic mi conquistò lentamente, giorno dopo giorno. Passavo a salutarlo per dargli delle mele, o dei pomodori e lui mi parlava di cose insolite. Di sera leggeva molto e mi raccontava a puntate i romanzi o i saggi che approfondiva. Io sgranavo gli occhi e assorbivo tutto l'universo che percepivo in lui. Sapevo che voleva partire un giorno, andare lontano e questo mi feriva. Voleva vedere il mondo, ma i confini erano diventati difficili da superare, eppure continuava a sognare. Quella sua vena inquieta mi attirava e allo stesso tempo mi feriva. Quando mi sentivo triste per questi suoi discorsi mi mettevo a disegnare furiosamente luoghi e persone inventate, fantasmi e mondi immaginari.
A lui piaceva stare con me, ma non me lo diceva. L'intuivo però, perchè si appassionava a spiegarmi le cose, come se la mia ignoranza fosse perfetta per lui, un terreno fertile in cui far crescere i suoi sogni.
Diventammo inseparabili. Nel tempo libero dove c'era lui, c'ero io.
Alla festa di mezz'agosto non baciai nessuno perchè avevo lui in testa.
Un giorno di ottobre lo trovai fuori dalla cascina con lo sguardo perduto.
- Lù ti devo parlare - mi disse. E io sentii fremere dolorosamente i petali dentro di me.
Andammo dietro al noce, lui aveva lo sguardo confuso.
- Devo partire, è arrivata questa - Era la Lettera.
Lentamente, quasi senza clamore, la guerra era tornata nel nostro mondo.
E lui doveva andarci.
- No - protestai come una bambina.
Lui mi abbracciò forte. Non l'aveva mai fatto. E io mi lasciai avvolgere dal suo corpo, così diverso dal mio. Sapeva di menta e d'aria.
Ci baciammo e il suo bacio fu diverso da tutti gli altri. Ed io capii le mie sorelle. Il rosso era entrato anche in me, finalmente. Un rosso tramonto, dolce e amaro al tempo stesso.
- Ti aspetterò, tu sei forte e tornerai presto. La guerra finirà presto - mormorai.
Fu il lungo inverno dell'attesa. Poi ci fu la primavera amara.
La guerra non voleva finire e l'estate fu arida, senz'acqua.
Ma a settembre Vic tornò. Era ferito ad una gamba e questo l'aveva salvato dal fronte. Appena arrivò io gli portai una torta fatta da me, c'erano anche lacrime di gioia là dentro.
- Ti curerò io la gamba, sono una brava infermiera -
Lui aveva il volto distrutto, la scia del dolore nei suoi gesti, ma quando mi vide mi sorrise. Dov'erano tutti i suoi sogni, le sue parole, la sua voglia di fuggire via lontano?
Non c'erano più o erano state trasformate dalla guerra, forse? Vic era felice di essere lì, con me.
Ero cresciuta in quella villa e Barbablù era diventato il mio unico punto di riferimento. La casa era nascosta da un giardino rigoglioso, siepi di bosso, rose, margherite dai petali screziati di lacrime, sospiri.
Vialetti nascosti portavano a fontane, tane di foglie o statue di angeli con le ali mozzate.
Barbablù era attratto dagli angeli, creature incerte e supreme, ma in un certo senso li temeva, proprio lui che sembrava così forte, così sprezzate e altero.
- Dio non esiste - bofonchiava spesso, eppure io non gli credevo e lo guardavo cercando di intuire chi fosse veramente quell'uomo.
Aveva un portamento regale, grandi spalle forti, una barba selvaggia e folta, nera dai riflessi blu, da qui il suo soprannome.
Il suo nome tutti l'avevano dimenticato, perché lui stesso voleva dimenticarlo. Io no, io lo sapevo e lo custodivo in segreto, così come custodivo alcuni tesori in una scatola di latta.
La scatola raffigurava il mare impetuoso, un tempo aveva conservato dei biscotti, ora c'erano i miei ricordi e le mie speranze.
Una fotografia in bianco e nero con i miei genitori e mia sorella, una lettera d'amore, uno scontrino sbiadito, una rosa secca, una carta di caramella all'arancia e una chiave.
Ecco i miei tesori.
Nella fotografia si vedevano un uomo e una donna, in un giardino incolto e due bambine, una quasi nascosta da una grande dalia, l'altra in braccio all'uomo. La foto mi riportava indietro di anni, in un'epoca vicina eppure remota perchè ora le cose erano cambiate e io non ero più quella bambina dalle trecce scure e il sorriso sincero.
La lettera d'amore mi era stata scritta da un compagno di scuola, Martin. L'avevo letta così tante volte che l'avevo imparata a memoria:
"Cara Ari, ti sogno tutte le notti e ti penso. Maledetta a te, ti penso ogni ora.
Una volta ti prendevo in giro, ricordi? Ti chiamavo 'Trecce storte' e adesso... Adesso vorrei passare del tempo con te, è questa la verità, vorrei vederti sorridere.
Il tuo sorriso mi porta la pace nel cuore. E il mio cuore, tu lo sai, ha un grande buco nero. Tu sai portare un po' di luce là dentro, piccola Ari.
Ti aspetto fuori da scuola.
Martin."
Martin era il mio amico del cuore, non lo vedevo da così tanto tempo che il suo viso sfumava e diventava confuso. Non potevo uscire dalla casa di Barbablù, ero una reclusa e tutto il mondo esterno mi era proibito.
Lo scontrino era di una gelateria dove io e Martin avevamo preso una granita, quel giorno c'eravamo anche baciati. La sua bocca sapeva di fragola, la mia di limone, i nostri due gusti insieme erano freschi e dolci al tempo stesso.
La rosa secca l'avevo conservata perché apparteneva alla casa della mia infanzia. L'avevo recisa l'ultimo giorno, prima di entrare qui dentro e la carta di caramella all'arancia me l'aveva data mia sorella un giorno in cui avevamo litigato e poi fatto pace.
Barbablù è l'uomo più potente della città, può scegliere le sue spose, esse vivranno nel lusso e nella conoscenza, la sua enorme biblioteca è a disposizione delle sue donne, ma esse mai potranno varcare il grande cancello. La vita del mondo esterno diventerà un ricordo remoto, del resto lui sa rendere ogni giorno e ogni notte indimenticabile, così tanto che nessuna donna vorrà più uscire dalla villa incantata.
Così si diceva, dalle nostre parti e forse, in parte era così. La villa era un luogo magico, corridoi infiniti si aprivano al nostro passaggio, gli specchi ci mostravano luoghi meravigliosi, città lontane sempre diverse. "Sono le città invisibili" mi confidò lui, un giorno "ma ognuna di voi vede paesaggi diversi, in base al vostro mondo interiore, il tuo Ari è il migliore. Hai una grande immaginazione, piccola mia".
E mi abbracciava. Così sentivo il suo odore di tabacco e mi perdevo in quel mondo immaginario.
Volevo vederle tutte quelle città, sfioravo gli specchi e talvolta mi accorgevo delle lacrime che scivolavano lente sul mio volto.
Ero prigioniera.
Ero ancora troppo piccola per amare, mi sarei lasciata toccare soltanto da Martin e Balbablù lo sapeva.
- Aspetterò - diceva accarezzandomi la schiena - Verrà un giorno in cui tu verrai a cercarmi - e mi guardava con i suoi occhi oscuri. Si accontentava di abbracciarmi e prendeva dalle altre tutto il resto, senza pazienza né ritegno.
Loro negli specchi vedevano deserti.
Ed io, lentamente, iniziai a pensare alla rivolta.
La chiave
L'ultimo tesoro nella scatola di latta è la chiave.
C'è una sola stanza proibita a noi tutte, amanti e spose. È l'ultima porta in fondo al corridoio del primo piano. Lì nessuna di noi può entrare, solo lui, il nostro signore, può accedervi.
Dov'era la chiave? Tutte noi ce lo chiedevamo, perché in fondo, sebbene stordite dalla meraviglia labirintica della villa, noi tutte volevamo scoprire il segreto di Barbablù.
- Ari solo tu puoi trovare la chiave - mi disse un giorno Lorena, la prima sposa. Lorena aveva lunghi capelli bianchi, occhi celesti e labbra rosa, come petali. Era stata la prima amata da Barbablù e aveva molto sofferto quando si era accorta che lui non era mai soddisfatto, nè di lei, nè di nessun'altra perchè nessuna donna avrebbe mai placato il vuoto che lui percepiva.
Lorena si era affezionata a me e vedeva in me una possibile salvezza.
- Ti ho vista l'altro giorno in giardino. Parlavi con gli angeli di pietra -
Era vero. Nella mia solitudine avevo cercato amicizia anche nelle statue, i grandi angeli con le ali recise, anche loro prigionieri nel giardino.
E loro avevano iniziato a parlarmi, con voci soffuse, come i fruscii del bosco, voci che sentivo soltanto io.
- Se puoi parlare con gli angeli troverai la chiave. Se troveremo la chiave scopriremo il suo segreto e io saprò se lo amo o lo odio. Capiremo se va salvato o distrutto -
Gli angeli
Accadde di notte, in estate. Faceva caldo e non riuscivo a dormire. Silenziosamente, a piedi scalzi, uscii dalla mia stanza e andai in giardino.
I grilli bisbigliavano frasi sconnesse, i miei ricordi si rincorrevano e cadevano, la mia immaginazione si mescolava alla realtà.
Gli angeli di pietra tacevano con gli occhi chiusi.
- Sto cercando la chiave della porta segreta, forse voi sapete dov'è? -
L'angelo più grande mi guardò con dolore, sembrava trafitto da una lama incandescente e invisibile.
- È sotto al suo letto, bambina. Forse tu puoi aiutarci e aiutarlo. Forse non tutto è perduto -
Corsi dentro e andai nella sua stanza. Pensavo di vederlo avvinghiato a qualcuna di noi, ma il suo letto era vuoto.
Guardai sotto e trovai la chiave. Era d'argento grande e luminosa come la luna.
La nascosi nella scatola di latta.
La stanza segreta
Il giorno dopo pensai di usarla. Di notte, sgusciai via dal mio letto e andai a cercare Lorena, ma non la trovai, forse quella sera era stata scelta? Dovevo andarci da sola.
La porta era al primo piano, in fondo al corridoio.
Mentre camminavo vedevo negli specchi le città invisibili. Quella notte erano tutte vuote e spopolate, azzurre e blu. Qualcosa stava cambiando anche in me, come in tutte le altre. Forse presto anch'io avrei visto solo deserti e ghiacciai. Era tempo di cambiare.
Inserii la chiave d'argento nella toppa, il cuore pulsava forte nelle orecchie.
L'aprii.
C'era lui nel buio, ma dall'oscurità si muovevano anche alcune creature fatte d'acqua e terra, fuoco e aria.
Erano creature incerte e inquiete, sue idee che si materializzavano in quella stanza.
- Finalmente sei venuta Ari, ti stavo aspettando da tanto tempo. Ho più copie di questa chiave. Una l'hai trovata tu. - e i suoi occhi erano bui, annegati nel dolore.
Mi porse un coltello affilato.
- Fai quello che devi fare, Ari -
Pensai alla libertà, pensai alle altre, pensai a Lorena, A Martin e alla mia famiglia.
Lasciai cadere la lama.
Le creature continuavano a mutare forma e Barbablù mi parve deluso.
- Omar, noi oggi ce ne andremo, saremo libere. - dissi.
Lui si fissò le mani grandi, trafitte. Omar, era tanto che nessuno lo chiamava così.
Mi guardò per un momento illuminato.
- Il cancello rimarrà aperto, resterà solo chi lo desidera. -
…
Tutti i cittadini poterono entrare nella villa di Barbablù, si aggiravano incantati tra i roseti e le aiuole fiorite e ricordavano gli anni bui in cui quell'uomo si prendeva le loro figlie.
Io sono tornata a casa e ho raccontato tutto a Martin, lui mi ha spinto a scrivere tutta la storia. Talvolta ci rincorriamo nel giardino, ma ora è davvero tutto diverso.
Gli specchi sono stati distrutti, Barbablù dice che dobbiamo inventare noi le nostre città invisibili.
Talvolta io e Martin andiamo a cercare gli angeli dalle ali mozzate, ma da quella notte nessuno li ha più visti.
Ora Barbablù vive ritirato in poche stanze insieme a Lorena, lei non l'ha mai abbandonato e lui adesso la guarda come un uomo che ha trovato l’amore. Insieme sembrano due alberi in cima ad una collina, al tramonto.
La notte prima del temporale. Allora ci troveremo, davanti al fiume io ti canterò una canzone senza parole e tu finalmente ti toglierai quella pesante maschera di legno. La lascerai cadere, come si lascia cadere un pezzo di dolore, e mi guarderai.
Davvero non mi riconosci? Ti ho aspettato per così tanto tempo che sono cambiata, ma sono io. Una donna dai capelli sempre un po' spettinati, la luce negli occhi dei sognatori, il corpo con il segno degli inverni. Lividi e scie sulle gambe, non vanno via, restano lì a ricordarmi che il tempo non torna indietro.
E tu. Vorrei sfilarti via la pietra di dolore che hai nel cuore, ha rami sottili e voraci che si attorcigliano scomposti. Vorrei strappartela, ma so che devi farlo tu. Lentamente, giorno dopo giorno, la devi estirpare.
Per ora entrambi restiamo ad osservare i nostri pensieri, i tuoi sono color ocra e parlano delle creature sotterranee. I miei sono rossi, hanno le ali di luce e tu vorresti toccarli, ma volano via.
Ti rimetti la maschera e sei pronto a tornare impenetrabile. Io la guardo e l'accarezzo. So che un giorno la toglierai, so che un giorno la brucerai. Senza più rimpianti. E quel giorno io tornerò ad avere le ali.
Le città avevano dimenticato le voci del bosco. Non ricordavano più il flusso del tempo. Luci artificiali avevano offuscato le stelle.
Il cielo era opaco. Muto.
Io non mi stancavo di camminare sotto la pioggia. Pioveva da giorni, le nuvole erano un paesaggio in continua metamorfosi e io avevo dimenticato tutto, ma non te.
Tu restavi come un fiore tenace ancorato al mio cuore. Fiorivi a tratti, aprendo i tuoi petali e facendomi sanguinare.
Nelle vetrine vedovo manichini senza volto, senza mani nè speranza.
Gli abiti erano il loro unico vanto, anche loro non potevano vedere ciò che stava accadendo al mondo.
Attraversavo le vie senza fretta e arrivavo al grande fiume.
Guardavo l'acqua scorrere e la sentivo sussurrare parole incomprensibili. Il verde si specchiava nel riflesso, diventava silenzio.
Ritornavo a rivivere i giorni della lotta, mi rivedevo, così giovane e ostinata, rivedevo le mie gambe correre nella città blindata, risentivo le voci, le nostre mani alzate a chiedere qualcosa che non sarebbe arrivato nè allora, nè mai.
Dove abbiamo sbagliato?
Dove ci siamo persi?
Nell'incanto dell'idea che non sa farsi realtà, nel dolore che si accortaccia su se stesso.
Allora, a quel punto, arrivavi tu e mi stringevi.
Il fiume tornava ad essere un compagno benevolo, le nuvole, le foglie e noi due.
- Non è ancora finita - dicevi tu.
- Non è ancora finita -
E cantavamo la nostra canzone, credendoci ancora, credendoci sempre.
Fu una rovinosa primavera di pioggia, le gocce colpivano le foglie delle mie rose, i petali cadevano senza fare rumore.
Io dalla finestra spiavo le nuvole, scomporsi e ricomporsi in centinaia di storie mai scritte.
Le nuvole, le rose, l'acqua, il mio destino che si apriva lentamente, giorno dopo giorno.
E il mio destino aveva il tuo nome che scrivevo e cancellavo ogni giorno, eppure era inutile. Il tuo nome era inciso dentro di me, una cicatrice che a volte sanguinava, altre volte diventava bianca come un respiro.
Era la primavera dei miei 17 anni e l'amore per te mi parve subito un oltraggio.
Tu piacevi a troppe e io ero solo io. Una creatura di luci ed ombre che ti aspettava per parlare, anche solo per un momento.
Io non volevo amarti, ma solo proteggerti, solo esserci.
Mi rifiutavo di amarti con un dispetto crudele fatto al mio cuore, una lama che affondavo ogni giorno dentro di me per cacciarti da lì, per custodirti come un fiore prezioso, proteggerti dai vermi e dalla grandine.
E tu un giorno mi guardasti non come una sorella, ma come un'impossibile salvezza.
Cos'ero per te? Ero qualcosa che non osavi toccare, come temendo di rompermi o di spezzarmi per sempre.
Ero lì, così vicina, così irraggiungibile.
Restammo amici, promettendoci in silenzio che non ci saremmo mai persi.
Ma i petali cadevano e noi non potevamo farci niente.
Primavera dopo primavera, pioggia dopo pioggia, dolore dopo dolore.
Infine, in mezzo a un mondo impazzito, che non riconoscevamo più, ci ritrovammo.
Io ero antica, i capelli più fragili e bianchi, tu sembravi aver affrontato un lungo viaggio attraverso il deserto, il passo più lento, gli occhi stanchi.
Eravamo in mezzo alle rose o forse eravamo in una via grigia e anonima, ma rose alte come noi crescevano mentre ci parlavamo.
Superstiti di un mondo disfatto, io e te, ci sorridemmo.
Per un momento tornammo ragazzi, incerti e inconsapevoli.
Si mise a piovere, ma noi non avevamo l'ombrello.
Ci lasciammo bagnare dal nostro ricordo.
Camminammo a lungo in mezzo alle nostre rose. Non avevamo mai visto un giardino così bello in vita nostra e non lo avremmo mai dimenticato.
Un tempo avevamo le ali. Ognuno aveva ali diverse; alcuni le avevano fatte d'acqua e silenzio, altri le avevano fatte di foglie, altri di legno, di acciaio, di terra, di fuoco.
Ogni persona aveva una sfumatura diversa degli elementi nelle sue ali.
Com'erano le tue?
Erano fatte di luce al tramonto?
Com'era volare?
Lo ricordi?
Io ho un solo vago ricordo di allora, era tanto tempo fa, all'origine del nostro tempo.
Ricordo il bosco e le gocce d'acqua sulla mia pelle, ricordo le mani di mio padre, le braccia di mia madre, le luci notturne delle ali di mia sorella, luci mutevoli, in trasformazione.
Ricordo il nostro nido distrutto dal dolore e poi ricomposto lentamente, giorno dopo giorno.
Ricordo la nostra lenta risalita verso il sole.
Un giorno, amore mio, ritroveremo le nostre ali.
Quando tutto ci sembrerà finito, sarà allora che, come all'origine, le sentiremo crescere in noi. Sarà bello ritrovarti, amore. Voleremo senza le paure di adesso, senza i vincoli e le catene. Saremo liberi.
Allora potrò vederle le tue ali e capirò tutto, senza chiedere, senza parlare.
Ci sono porte nella mente. Porte che rimangono chiuse per decenni, porte che si temono eppure potrebbero nascondere meravigliosi giardini.
Talvolta le guardiamo con sospetto. Sappiamo che ci sono, che fanno parte di noi, ma non osiamo aprirle.
A volte abbiamo perduto la chiave, altre volte l'abbiamo nascosta noi, in luoghi inacessibili.
Le porte hanno forme bizzarre. Rappresentano parzialmente il luogo che nascondono.
Ci sono porte di ghiaccio, incrostate di dolore, porte di legno intarsiato di ricordi, porte di vetro trasparente, porte rosse, verdi, blu, gialle, porte nere.
Talvolta capita di ritrovare le chiavi dopo un lungo dolore.
La chiave della mia porta rossa era una fiamma, la chiave della porta blu era una stella d'argento. Le osservavo incredula, come quando da bambina osservavo i fiori, così meravigliosi, così incomprensibili.
Un dolore può fare questo?
Far ritrovare le chiavi perdute?
Andai a seppellirle nella mia mente. Entrambe vive e palpitanti. La fiamma e la stella.
Un giorno, quando mi sentirò pronta, andrò a prenderle e inizierà una nuova storia.