mercoledì 26 giugno 2013

Blu riflesso, il romanzo incompreso

 
 
Blu riflesso è un mio romanzo scritto tra il 1998 e il 2000. E' un romanzo che ha preparato il terreno a La memoria degli alberi, perché la tematica della sofferenza interiore e psichica è già presente. Eppure è molto diverso da La memoria degli alberi. Blu riflesso è un libro più cattivo e più squilibrato, perché io, all'epoca ero così. In questa storia la protagonista, Toni, ha un forte conflitto interiore, anche di natura sessuale, e si ritrova a vivere una serie di fughe in compagnia di alcuni disperati come lei. Non c'è riscatto, c'è solo la scoperta del trauma e la sopportazione di questo.
Esiste un problema della lingua in Blu riflesso, dovrei fare come Manzoni, riprenderlo e rielaborarlo integralmente, frase per frase. Non credo che lo farò. Blu riflesso rimane così, sbagliato e acerbo come deve essere. Almeno per ora. Ho un'altra storia che mi frulla in testa... E troppo poco tempo per lavorare.
 
Ecco l'incipit di questa storia imperfetta.
 

Blu riflesso

 Dietro al vetro.
 Io ed Angelica andavamo spesso, in quel tempo, ad arrampicarci sulla scala di legno che conduceva in soffitta.  La porticina minuscola che stava in cima era perennemente chiusa, ma sopra alle nostre teste c’era una finestra che dava sul cielo.  Anche quella era sempre bloccata, ma ci offriva degli spazi infiniti a cui noi non sapevamo rinunciare.   Sedute vicine su quegli scalini impolverati ci raccontavamo ogni sorta di cose, litigavamo spesso, sghignazzavamo, ma soprattutto sognavamo, con negli occhi l’azzurro del cielo.   Avevamo dieci anni tutte e due ed eravamo entrambe da tempo nella Casa di cura.  Per la verità io vi ero arrivata prima, ero lì praticamente da sempre e i miei mi riportavano a casa sempre più raramente, in realtà da loro ci stavo solo a Natale.  E non mi mancavano, anzi li odiavo, e mi sentivo molto grande rispetto agli altri bambini della mia età,  perché io alla Casa di cura ci stavo da sette anni ormai ed era indiscusso il fatto che io lì fossi il capo.  Bisogna dire che non era semplice farsi rispettare, ma  ce la mettevo tutta e, fino ad allora, non avevo avuto grossi problemi.  La mia casa dunque, il mio mondo era in quelle quattro pareti bianche, un po’ sberciate dove tenevano i bambini con dei problemi ‘psichici e comportamentali’ come dicevano loro, pazzi o scemi, come dicevamo noi, che erano due cose distinte.  I pazzi erano sicuramente i più rispettabili, c’eravamo io, Angelica, Mattia che era il mio vice, Alfonso che ogni tanto però credeva di essere qualche oggetto, Caterina e Tiamamat, il resto erano molluschi o appunto bambini del tutto andati, come Giuvá che era autistico e parlava proprio di cose che non si sapeva da dove venissero fuori.  Certo, anche noi non centravamo molto con la testa, ma spesso io giudicavo la nostra malattia un “eccesso di creatività”.
 
 Foto di Anita Libera Corsi
 

-Perché siamo qui in prigione?! - borbottava a volte Angelica guardando il cielo dalla finestra della soffitta.  I suoi occhi si velavano d’acqua ed allora io pensavo che non stesse guardando il cielo,  ma qualcosa che andasse al di là.
-Perché siamo migliori  degli altri- rispondevo ormai automaticamente, ero infatti abituata a quelle domande di Angelica: lei, a differenza di me, non sopportava l’idea di venire considerata diversa.
- Gli altri ci prendono in giro Toni, lo sai, dicono che siamo mongoloidi-
- Gli altri non capiscono un cazzo -  Per troncare la questione con lei sapevo che dovevo usare un lessico sboccato; Angelica infatti si inteneriva nel sentirmi utilizzare quelle parole, si sentiva protetta da tutta quella violenza verbale.    Si voltava verso di me e mi baciava lentamente le guance e le labbra.  A me allora bruciava tutto e mi mettevo ad accarezzarla. Pensavo di amarla, ma non era così, o meglio l’amavo, ma non nel modo in cui credevo… Perché fingevo sempre di essere un uomo, ma ero solo una bambina.  Per tutti lì ero Toni, anche per i dottori, solo mia mamma mi chiamava col mio vero nome: Antonia, ma mia mamma, come ho detto, la vedevo solo a Natale.

 
 
 
 
 
 
 
 


domenica 23 giugno 2013

tramonto d'estate

L'estate era iniziata e noi bambini giravamo in bici, sotto al sole gigantesco e rosso. Andavamo a caccia di lucertole e di ragni crociati.
I sentieri in mezzo ai campi di grano si spaccavano, crepe come lampi nella terra. Le lucertole correvano disperate, i ragni erano strane creature dorate, le loro tele, avevano geometrie perfette e sconosciute. Non volevo uccidere, volevo solo osservare. La vita pulsava anche in loro, come linfa densa, in ogni filo d'erba in ogni antenna di formica. Cantavo forte al tramonto perché il sole lasciava sangue nel cielo. Cantavo e ogni sera morivo un po' mentre la terra cresceva e pulsava sotto di me.


giovedì 20 giugno 2013

What is the light?

Cos'è quella luce, tutt'intorno a te, amico. Io non lo so. E' il riflesso di qualche lampada nascosta o sono io che vedo le cose diversamente? Forse ho dormito troppo poco, vieni più vicino.
Devo imparare ancora tutto, insegnami... Questa notte è stata terribile. C'erano pesci enormi nella mia stanza, fluttuavano come palloni aerostatici. L'aria era piena di bolle d'acqua. Avrei voluto aprire la finestra ma fuori c'era l'oceano sconfinato, nero, le case erano vecchi relitti ormai.
Amico, perdonami. La tua luce forse può aiutarmi. Ecco, dammi la mano. Forse sostenendoci non cadremo. La luce. Non c'è altro che luce qui, ora.


Foto di Anita Libera Corsi



lunedì 17 giugno 2013

la leggerezza del vento


Quando entra la malattia nella nostra vita ogni istante è più fragile. Ci aggiriamo insicuri per le stanze, nelle vie così abbaglianti, c'è troppa luce dappertutto. E gli ospedali hanno corridoi così lunghi, pieni di porte chiuse e stanze blindate. Negli ospedali si attende. A lungo. Talvolta si fantastica immaginando universi paralleli nascosti dietro quelle porte, così tanto osservate.
E poi si esce e ci si stupisce per un papavero, il suo colore così violento ci colpisce. In mezzo al cemento lui, ribelle solitario, vive di aria e sole, lontano secoli dalle nostra piccole ed inutili paure.
Voglio vivere così, di sereno splendore, di meravigliosa leggerezza. Camminare e cancellare tutte queste parole accavallate, liberarmi dalla grammatica della cortesia, sorridere al vento, dentro e fuori di me.


giovedì 13 giugno 2013

Rame

Rame sulla tua pelle,
io vedo il rame su di te. Non importa se sei reietta, non importa se hai perso tutte le battaglie.
Rame, nei tuoi capelli, rossi d'estate.
I campi verdi, umidi di silenzio e di pianto nascosto. I campi e i papaveri, non m'importa del resto. Corri, i petali come il fuoco che non si spegne.
Tu porti con te il desiderio del sole, e io, malato da troppo ormai, non posso che perdermi nelle tue falcate veloci. Piedi scalzi. Io non posso più camminare e tu sei la mia speranza.
Ciao piccola strega bambina, non chiedermi di voltarmi dall'altra parte. Non lo farò.



martedì 11 giugno 2013

La memoria degli alberi. Recensione della Bottega Scriptamanent


La memoria degli alberi e Alice Corsi

Il Premio “La Giara” ha visto una seconda classificata, Alice Corsi, la camaleontica e sensibilissima personalità dalla cui penna è stato partorito il romanzo La memoria degli alberi. Originaria di Alessandria, già autrice nel 1997 di un’altra opera Il colore della terra, edita da Joker: si occupa di scrittura creativa gestendo e promuovendo diversi corsi sull’argomento. «Le gemme si aprono con troppa lentezza. Le tocco e so che ci sono, so che sono vive. Le gemme dentro hanno un liquido d’oro opaco. Vita. Si chiama vita. Io mi sento foglia verde che nasce. Mi sento sola e forte nel legno. Spingo e respiro. Sto solo respirando. Non mi costa fatica. Il dolore si cicatrizza. Ho croci ovunque sul corpo. Se mi guardo nuda davanti allo specchio, rabbrividisco. Ho la pelle bianca, fragile. Qualche livido e i segni di quello che è stato il mio amore. Tagli neri. Non vogliono guarire. Ma io li osservo e li sfioro. Non odio la mia debolezza perché so che è forza. Se piango davanti allo specchio è solo per vedere l’acqua verde sul viso». È la storia di una caduta, quella nella perdizione della propria mente, del proprio dolore, e con essa nella spirale della malattia mentale. Marion ha cicatrici su tutto il corpo ma non ricorda assolutamente come sono state prodotte o da chi, o meglio la sua mente si rifiuta di ricordare qualcosa di troppo grande o di troppo doloroso. Fragilità e insicurezza disegnano un cammino di sabbie mobili dove non solo il corpo ma anche la propria psiche si arena inevitabilmente. Chi sono? Da dove vengo? Sembra chiedersi la protagonista. Animo sensibile o imprudenza di una giovane ragazza di campagna persa nell’atmosfera di provincia, la accompagniamo nelle sue flebili frammentate rimembranze: la casa dei ciliegi e la sua infanzia, con i fratelli e i genitori, la scelta di studiare letteratura lontana dalla sicurezza della sua famiglia, la sofferta perdita del padre, l’arrivo della nonna; fino al trasferimento in una nuova città, dove l’incontro e l’amicizia di Elix e Vlade dapprima, Giada e Michi in seguito, con la sua presenza luciferina le sconvolgerà l’esistenza per sempre.
Ma la vita non è mai prevedibile! Ci si perde per poi ritrovarsi, a volte, anche più forti di prima, allora ecco che i ricordi riaffiorano come un vigoroso inarrestabile fiume che straripa e valica gli argini. «Ricordo qualcosa. Una stanza dalle pareti color mare. La luce entra ad ondate, come aria di oceano, e io sono china su un libro. È un testo di poesie e io l’assaporo. Ma dove sono? Manca tutto il resto».

Complessa la vita di fronte alla problematica e alla sofferta traccia della malattia mentale, sola in mezzo a gente che non conosci affatto quando nessuno sa niente di te, nemmeno chi ti circonda, difficile provare a scoprire il proprio mondo interiore nascosto nel profondo di una coltre di dolorosissimi flashback, solo la forza e il coraggio possono trovare la strada giusta.

«Ha aperto un varco nella mia memoria che temo di esplorare. La sua violenza, il suo odio li conosco. Fanno parte di me. Non so. Ho paura. Ricordo vagamente un bagno illuminato di blu. E io grido e spingo qualcuno. È una ragazza. No. Basta. Basta.»

La tua vita ti grida aiuto, vuole emergere, riaffiorare, raccontarti chi sei, gridarti il peso della tua coscienza e scalfire i ricordi.

In questo processo mentale tanto difficile tutto rivendica la sua importanza, vuole la sua parte nella tua vita, come l’amore, quello dimenticato, tanto negativo e distruttivo per Michi e quello nuovo, positivo e folgorante, fatto solo d’anima ed evanescenza, per il dottore Nico.

«Io rimango sola con le stelle distanti e ghiacciate. Nell’aria calda dell’estate quei puntini luminosi blu sono cristalli di freddo puro, perfetto. […]. Il cuore va un po’ più veloce e non posso farci niente».
di Pamela Quintieri

Nello stesso articolo ci sono le recensioni di Cani Randagi di Roberto Paterlini e di Giochi di mano di Manuela Lunati.

sabato 8 giugno 2013

my generation

Negli anni 90 sognavamo una rivoluzione che non voleva arrivare. Maledicevamo la nostra insipienza e la nostra impotenza. Negli anni 90 la città era più piccola. C'erano locali pieni di fumo, suonavamo per evasione e desiderio di rivalsa. Eppure non bastava mai.
Imparavamo a memoria canzoni straniere, senza sapere bene il significato di quelle parole.
Nei videogiochi picchiavamo nemici troppo forti.
I nostri padri avevano già fatto tutto. Dopo i Pink Floyd che ti vuoi inventare?



Sul finire degli anni 90 sembrava che qualcosa di grosso stesse accadendo. A Genova spacchiamo il mondo, ne ricreiamo uno nuovo. A Genova il cielo era blu, uno specchio di mare capovolto. Non arrivammo mai a toccare l'acqua. Abbiamo corso tanto e c'era del sangue sul marciapiede.
E poi a settembre. Le torri si sono sgretolate, tutto si bloccò. Noi siamo rimasti attoniti, incapaci di crescere sul serio, riascoltiamo quelle canzoni, compriamo i nostri antichi giocattoli. Hanno fallito i nostri padri, ma noi? Non ci riconosciamo se ci guardiamo allo specchio.





mercoledì 5 giugno 2013

cadere e poi riprendere quota

Dax non faceva altro che cadere e sbagliare. Camminava e le strade erano la sua terra e il suo cielo.  Aveva dimenticato tutte le regole e non gli importava più, ormai. Rubava, si vendeva e masticava pastiglie di silenzi eccessivi.
Gli oggetti lo guardavano, maligni. I lampioni avevano occhi crudeli, indagatori. Le finestre perdevano liquido nero.
Dax  era stanco di perdere.
Una mattina il sole gli accarezzò la faccia, l’aria era pulita. Dax si mise a correre, attraversò la città piangendo e sussurrando qualcosa che lo riportava indietro, in un passato indefinito.
Davanti al fiume il ragazzo guardò i gabbiani volare, cadere e poi riprendere quota all’improvviso. Allargò le braccia.
Si accorse che voleva vivere.




foto di Anita Libera Corsi 

 

domenica 2 giugno 2013

l'estate all'improvviso


C'era una casa ai confini del tempo, abitata da gatti voraci e selvaggi. La padrona curava le sue piante che fiorivano anche sotto la pioggia incessante di quei giorni. Fiorivano dolorosamente, aprivano i petali sanguinando. I gatti dietro ai vetri aspettavano l'arrivo dell'estate, immobili.
Quando arrivò la casa parve di nuovo respirare. I gatti fuggirono per qualche giorno, rimasero nel bosco a fissare la luna, era un occhio cieco di civetta. Miagolarono compiaciuti, infine tornarono a casa, consapevoli e stanchi.
Noi bambini li spiavamo. Sapevamo che i gatti avevano dei segreti, ma non riuscimmo mai a capire che cosa avevano visto laggiù, nel buio.