domenica 29 dicembre 2013

fino alla fine del mondo

Ho camminato fino all'alba, i piedi distrutti, le scarpe piene di fango secco. Ho guardato la sagoma delle case, erano rettangoli di buio contro al sole opaco, là in fondo.
Ho camminato piangendo. Non avevo altro che le mie gambe. Mi avrebbero retto ancora?
Lo sapevo che avevo perso tutto, il tuo amore, la mia casa, i miei amici.
Barattando le mie speranze per un po' di gloria.
Sono un uomo o sono un vecchio? Faccio fatica a andare avanti. Un semaforo lampeggia.
É un occhio allucinato, forse anche lui dovrebbe dormire un po' di più.
Il cielo si spezzava in centinaia di nuvole. Ogni nuvola rifletteva un istante della mia povera vita:
io bambino
io che rido a mia madre
le sue mani chiare, come petali
mio padre
la casa distrutta
le pentole sporche
il vento
il vento ha rotto ogni cosa.
Io ragazzo
lei con me
i prati grigi della città
le strade lunghe quando è notte.
Il giorno in cui ho sbagliato tutto
il suo viso stropicciato
le sue labbra che dicono Vattene
le rughe sul mio viso.

Camminerò ancora, fino a che non avrò capito tutto. Camminerò e uscirò da questa periferia, ci saranno i campi e il sole brillerà sul gelo di questa pianura. Fino alla fine del mondo. Laggiù ci sono le colline e tutti i miei ricordi si apriranno. Fino alla fine del mondo. Forse, allora, capirò.


Foto Milena Poggio




lunedì 23 dicembre 2013

Il natale nei primi anni 80

A natale, quando eravamo piccoli, c'era sempre la pubblicità della Coca Cola a rincuorarci. Tutti quei giovani, così carini e vagamente hippy, ci facevano sentire in pace con l'universo. Cantavamo tutti, muovendo un po' la testa come loro e l'atmosfera era fatta. Natale era comunque una festa speciale, a casa nostra c'era un albero con delle palline psichedeliche elettriche. Chissà dove le avevano scovate i miei genitori: erano semisfere colorate con all'interno un liquido che si muoveva creando delle bolle e dei piccoli giochi di luci. Era l'era della disco.

Noi bambini stavamo in casa e giocavamo con le Barbie o i soldatini, a nascondino, a inseguire la gatta o con la condensa sui vetri. Uno dei nemici più spietati dei nostri giocattoli era la lucidatrice, uno strano attrezzo rumoroso che le mamme tiravano fuori quando volevano far brillare i pavimenti. Spesso in quegli anni per terra c'era il marmo, una distesa di frammenti policromi e se ti cadeva qualcosa, auguri a trovarla. A me però piaceva e fingevo di nuotare in quel mare di piccole gocce nere e bianche.






Natale era ritrovarsi con tutti i cugini, quello era il vero spasso. A quell'epoca non esistevano video-games e per forza dovevamo escogitare qualcosa per divertirci. Non era difficile, in fondo. Inventavamo avversari da combattere e ci nascondevamo dagli adulti, le case erano piene di anfratti e di ripostigli.
I nostri genitori fumavano tutti, le stanze erano molto puzzolenti, ma nessuno ci faceva caso. Mio papà suonava i bonghi e due suoi amici la chitarra, non c'era poi così bisogno degli mp3. Le stonature, tra l'altro, erano la parte migliore e sai che risate ci facevamo.
Anche adesso il natale è un momento di festa, basterebbe solo guardare un po' più in faccia chi abbiamo davanti e un po' meno lo schermo dello smartphone. Così, giusto perché è natale.











mercoledì 18 dicembre 2013

Un libro per Natale: Ieri di Kristof



Ieri è un piccolo libro di Agota Kristof, autrice enigmatica e, a mio avviso, molto interessante nel panorama contemporaneo. Ieri è un romanzo, ma è anche un sogno. Sembra scritto in stato di veglia. E' un libro che ho letto parecchi anni fa, ma mi è rimasto in mente come una maledizione o un amore perduto ingiustamente.

Il protagonista soffre di allucinazioni e vorrebbe fare lo scrittore, ma è soltanto un operaio.   Ama Line, creatura misteriosa che compare talvolta nella sua vita, e disprezza Yolande, una commessa che però si prende cura di lui. Ma è la scrittura la vera protagonista del libro: una scrittura violenta e spoglia come nel più famoso Trilogia della città di K.

Ecco l'incipit:

Ieri soffiava un vento conosciuto. Un vento che avevo già incontrato. Era una primavera precoce. Camminavo nel vento a passi decisi, rapidi, come tutte le mattine. Eppure avevo voglia di ritrovare il mio letto e distendermi, immobile, senza pensieri, e di restare sdraiato fino al momento in cui avrei sentito avvicinarsi quella cosa che non è voce, né gusto né odore, solo un ricordo vaghissimo, venuto da oltre i limiti della memoria.

(...) E poi

Ieri sono andato sulla riva del lago. Adesso l'acqua è molto nera, molto cupa. Le sere trascinano tra le onde i giorni dimenticati. Se ne vanno verso l'orizzonte come se navigassero in mare. Ma il mare è lontano da qui. Tutto è così lontano. Credo che presto sarò guarito. Qualcosa si romperà in me o in qualche parte dello spazio. Partirò verso altezze sconosciute. Sulla terra non c'è che la mietitura, l'attesa insopportabile e l'inesprimibile silenzio.

Agota Kristof si definiva "analfabeta" perché non padroneggiava perfettamente il francese, la sua seconda lingua, la lingua in cui scriveva. Eppure c'è della poesia nelle sue frasi secche come rami d'inverno, ma così vive e ricche di linfa.

Da questo libro hanno tratto Brucio nel vento di Soldini... Mi riprometto di vederlo presto anche se le musiche mi sembrano un po' pesanti!

Buona lettura...





venerdì 13 dicembre 2013

l'inverno in una stanza

Ricordo ogni istante di quell'inverno. Le foglie marce, il vento senza tregua, le vie congelate, i vetri rotti sui marciapiedi. Non sapevo che ero solo un ragazzo, mi sentivo uomo, mi sentivo forte e tu eri solo una ragazza tra altre nella mi vita.
Ma i tuoi occhi, così tenaci, la curva incerta del sorriso, la presa sicura delle mani, il modo che avevi di parlare, ostinato, egocentrico, mi catturarono.

E io quell'inverno scoprii che ero fragile e vulnerabile, come il mondo, là fuori.
Tutto sembrava sul punto di cambiare e io dovevo smetterla di recitare. Tu giocavi con me, mi puntavi una pistola immaginaria e sparavi. Io morivo. Morivo. Morivo. Cento mila volte morivo. E tu ridevi. Quando avremmo finito quell'inutile battaglia?

Era l'inverno delle fabbriche chiuse. Era l'inverno degli scontri e della rivoluzione. Era l'inverno in cui noi perdenti credemmo di vincere. E io e te non eravamo altro che fugaci comparse nella vita degli altri. Eppure cercammo di crescere. Io e te, nell'universo dilatato di una stanza, gli alberi abbattuti tutt'intorno e una canzone d'amore per non impazzire.




venerdì 6 dicembre 2013

Prima neve

 

- Selene, dolcissima figlia dei boschi, narrami ancora, ti prego, la tua favola. Raccontami la tua nascita, la leggenda dei tuoi primi istanti di vita -

Selene guarda il ragazzo attraverso il velo bianco di sposa-ragno e sorride. Le sue labbra si increspano.



- Nacqui nel gelo, tu lo sai - la sua voce è fredda e liquida come l’eco delle cascate.
- Mia madre mi partorì nella neve. Era l’alba e nel cielo c’erano lampi di comete che sfrecciavano veloci lasciando scie, brividi. Mio padre, poco distante da noi, gettava sassi, scalciava, graffiava i tronchi degli abeti, perchè sapeva che doveva abbandonarmi. Io piansi, era doloroso nascere. Respirare quell’aria ghiacciata, vedere quel sangue, nero e porpora, nella neve. Mia madre mi avvolse in un panno scuro, pungente. Respirava piano, finalmente; il fumo le usciva dalle labbra screpolate dal vento. Aveva occhi di aquila, dolci nell’angolo esterno in cui si raccoglievano le luci. Sapeva di muschio e di sangue. Aveva le mani ancora sporche di terra e di liquido sacro, mio e suo. Mio padre, dalla barba ispida e selvaggia, mi guardò. Forse avrebbe voluto abbracciarmi, ma non poteva perchè doveva fuggire. Scorsi solo la sua mano, grande e dai segni profondi incisi sul palmo, su di me. Era una carezza, ma io non lo capii e gridai. La neve iniziò a cadere, lenta, senza suono. Mio padre si mise addosso la pelliccia di lupo. Non riusciva più a guardarmi. Mia madre mi abbracciò ferocemente.


 





    Fu così, mio caro Paride, che io venni consegnata alla Dea; nient’altro posseggo di loro che questo breve, eppure vivido, ricordo. E’ per questo, mio giovane amico, che quando scende la neve nella foresta mi trovi assente e muta. Il brillare dei cristalli mi riporta ai miei avi e alle favole che, instancabilmente, costruisco su di loro e per loro. Perciò mi chiamano ‘la arachne’; perchè tesso nella mia mente, infinite volte, i volti delle creature che amo. Ed ogni volta sono diversi. Ogni volta il mio ritratto è incompleto, la mia favola è sbagliata -



Selene tace sotto il suo manto candido, di devota. Paride la guarda, ancora incredulo della sua storia. Selene era una strana vestale. Ma sotto al grande pino Paride si sentì al sicuro, come in una capanna di legno. C’erano solo lui e Selene, nella casa dei rami secchi, e fuori nient’altro che silenzio. Silenzio bianco.

 
 
 
 
 
 

giovedì 28 novembre 2013

Una sposa a novembre


                                                                                                                     (Foto Anita Libera Corsi)


C'era una sposa triste perché era stata abbandonata.
Io l'ho vista, camminava nei campi grigi induriti dal gelo, il vestito bianco era macchiato di fango, il velo dov'era? Forse l'aveva perso in quel viaggio alla ricerca dell'acqua. La sposa aveva il viso duro come il legno, una statua che aveva smarrito la grazia. Eppure il suo passo era deciso, non ammetteva ripensamenti.
Io la seguivo da lontano, in bicicletta, curioso.
Era la fine di novembre, le colline erano troppo lontane, c'erano campi di granoturco ormai abbandonati e il sole era una cicatrice bianca nel cielo. Volevo gridare per fermarla. Ma non volevo spaventarla. La seguii così fino al fiume. Aveva piovuto da poco, l'acqua era una melodia impetuosa. Lei scese l'argine, era ormai pericolosamente vicina alla corrente.
-Fermati!- gridai.
Lei si voltò, una sposa bagnata, senza più promesse.
-Vattene! - mi disse.
Ma io la raggiunsi e le parlai del tramonto, delle stelle pazze nei cieli d'agosto, le parlai delle lucciole che danzano nel canale e dei sussurri dei ragni, nascosti negli angoli delle case.
Lei sorrise, credendomi un folle, ma accettò il mio braccio. Barcollammo via, sulla strada buia d'inverno e piangemmo un po', parlando dei giorni assolati di maggio.


giovedì 21 novembre 2013

Lo scrittore è un prodotto

Scrivi a comando. Scrivi con una pistola puntata alla tempia. Scrivi e cerca di essere fotogenico, perché ti stanno inquadrando. Lo scrittore è un prodotto, non diverso, in fondo, da altri. Scrivi cose accattivanti, ma semplici, tutti devono capirti. Nello stesso tempo non puoi essere banale perché devi essere un personaggio, devi essere nuovo, cool, affascinante. Ci sono stati scrittori poco attraenti, eppure sapevano cogliere quello che gli altri sentivano, ma non riuscivano ad esprimere. Non importa, dimentica tutto questo. Ora sei ripreso, ti stiamo mandando in onda. Sorridi, ma non troppo, lo scrittore deve essere serio, pensieroso, il viso a tre quarti, un po' in ombra. Ecco qua. Sei in un perfetto meccanismo ad orologeria. Tic tac. Tic tac.

 
 
 
 

giovedì 14 novembre 2013

L'amore al tempo dei citofoni


 Negli anni 90 se ti piaceva qualcuno non dovevi chiedergli l’amicizia su Facebook, perché Facebook non esisteva. Non c’erano i telefonini, ma un oggetto un po’ inquietante: il telefono fisso. Certo non era il massimo telefonare a qualcuno che ti piaceva, senza passare per uno stalker, termine ancora del tutto ignoto, in più rischiavi di dover prima parlare con i suoi genitori – Andrea c’è qui una ragazza per te! Non ho capito, vieni va.- Imbarazzo totale.

In quell'epoca era quindi più semplice andare in bici o a piedi nella zona frequentata dalla persona amata. Camminavi davanti al suo gruppo e magari ti diceva: Ciao!

Dall'intonazione potevi intuire se gli interessavi o meno. Quante elucubrazioni inutili! Ma sì, hai visto come ti ha salutato! Si vede che gli piaci. Eh sì…

La mia è stata un’epoca di grandi immaginazioni, storie inventate che riempivano la nostra vita e spesso diventavano protagoniste assolute dei nostri giorni.


È lui? Sì. Mi guarda?

Non so. Forse; forse avrebbe voluto guardarti, ma si vergognava.


E a volte passavi davanti alla casa dell’amato immaginario, fissavi il nome scritto sul citofono e il cuore aveva un sussulto... Sì, c'era della poesia in tutta quella complicata attesa.

        




giovedì 7 novembre 2013

Le voci nella conchiglia


Inseguo con le  dita i bordi di una conchiglia bianca, stellata, ha ancora l’odore del mare.

L’accosto all’orecchio. C’è del vento rinchiuso?

Dzara, la mia vecchia amica, la mia domestica slava, mi dice - Scrivi! Scrivi! -

- Scrivi cosa? - le rispondo e la guardo male.

- Scrivi le voci - il suo sguardo emerge tra le rughe profonde.

- Scrivi le voci della conchiglia -

Sono più dolorose di quanto si possa pensare, cara Dzara. Ma in questa spirale ci sono anche sospiri, sguardi furtivi, parole sommesse. Cercherò di darle voce vecchia mia, per me, per le mie ossessioni, per te che mi devi sopportare.

 

Sono davanti alla mensola delle ampolle di cristallo azzurro, in piedi, con la conchiglia sull’orecchio. Chiudo gli occhi.

                                                                        Ascolta.


 
 
 (Incipit del mio romanzo Blu riflesso)
 
 
 
Letture di Blu riflesso alla Sartoria Creativa di Torino, aprile 2012.
 
Inaugurazione della Biblioteca degli Inediti.
 
 
 
 
Con le foto di Anita Libera Corsi
 
 

mercoledì 30 ottobre 2013

il mondo incantato di una bambina distratta


Quando ero piccola costruivo bambole di carta, castelli improbabili retti da esili pilastri altissimi e fragili. Sulle nuvole vivevano i personaggi del mio mondo fantastico. Gli adulti non potevano salire fin lassù, c'era una strada dorata scivolosa, sarebbero inciampati e, infine, avrebbero abbandonato l'impresa tornando indietro.




Nel mio mondo i ragazzini erano liberi e forti, lottavano contro cattivi spietati e cocciuti, ma alla fine li avrebbero sconfitti, perché i bambini hanno bisogno di credere alle favole.

Non c'era pace nelle mie storie, l'amore era spesso drammaticamente negato, eppure sempre cercato, unico fine nel mio universo.
Gli spazi immaginati si estendevano, la mia stanza era senza pareti, là fuori c'era il bosco sussurrante, la notte delle comete o il deserto dalla sabbia rossa.

Entravo nei palazzi di carta, i pavimenti scricchiolavano, sapevo che dovevo fare attenzione, tutto avrebbe potuto sbriciolarsi. Sguainavo la mia spada di vetro, i timori  potevano attendere, quello era il momento del gioco e del coraggio.

E poi guardavo mia sorella, unica complice del mio inganno, i suoi occhi brillavano di gioia per l'avventura che si apriva davanti a noi. Noi e il mondo invisibile delle storie. Non avevamo più paura degli uomini-drago.



venerdì 25 ottobre 2013

Angelo dei treni

Angelo era un macchinista ferroviere. Era slanciato, la fronte spaziosa di chi ha tanto osservato le cose in silenzio. Camminava con la testa alta, gli occhi erano nascosti da occhiali scuri o dalle rughe degli anni.
 Angelo viveva in una piccola casa, con un minuscolo giardino segreto. Dietro le siepi pensavo sempre di scorgere qualche tesoro nascosto o qualche creatura fatata. Lui e sua moglie si volevano bene, lei aveva occhi trasparenti come l'acqua quando è fredda. Anche sua figlia Milena aveva quegli occhi e li ha ancora.
Angelo portava me e Milena al mare. Salivamo sul treno diretto a Genova, poi cambiavamo per arrivare almeno fino a Nervi.


Il mare era un miraggio blu che si faceva sempre più vicino. Toccavamo l'acqua felici. Angelo mi insegnò a nuotare, diceva - Non aver paura, vedrai che non vai giù -
Mio padre non poteva farlo, anche se gli sarebbe piaciuto. Io, Milena, il cielo, l'acqua e Angelo. Senza parole, ma insieme.
Angelo conosceva la posizione di tutte le fontane, non amava spendere inutilmente.
- Offro io - diceva e noi ridevamo.
Angelo amava viaggiare, amava condurre il suo treno, amava vedere il colore del cielo che cambia.

La sua vita si spezzò in fretta, un male feroce, legato al suo lavoro forse, lo portò via in pochi giorni.

 (Foto Milena Poggio)

Angelo guida ancora i treni, al mattino, quando l'aria è densa di nebbia e di piccole gocce di umidità.
E a volte guarda la sua casa dall'esterno, il giardino bagnato di pioggia, la sua nipotina e tutto ciò che non ha più e che gli manca.




venerdì 18 ottobre 2013

fino al mattino

 Mi ritrovo in una torre, le finestre sono specchi, la mia immagine è diversa da come la ricordavo. Ho negli occhi la traccia del vento e delle attese vane. La pioggia ha mutato il mio corpo, lividi e gonfiori. C'è tanta acqua sotto la mia pelle stanca. Chi sono?

 La stanza è senza mobili, ci sono solo io e il mio riflesso, tendente al verde. Vedo però, una scala.
La scendo perplessa, i gradini sono in pietra fredda, scivolosa. Dove sto andando?

Ecco la stanza al piano di sotto, simmetrica. Le pareti sono rami nudi, senza più foglie; scendo ancora più giù, prima o poi dovrà finire questo maledetto sogno.
Arrivo all'ultima stanza: è un'anticamera dai muri di legno con tre porte. Mi avvicino a quella centrale, la apro.
Il cuore accelera.
E' l'uscita.

 Un coniglio enorme dal pelo bianco e gli occhi rosa mi osserva. Il bosco è la sua tana.
- Sei arrivata tardi - mi dice. La sua voce la conosco, è da uomo e proviene dal mio passato remoto.
- Non puoi fare più nulla per lei - indica una bambina che mi osserva.
Sono io tanti anni fa.
Vorrei abbracciarla, ma lei non mi conosce, non lo permetterebbe.
- Signora? - mormora - ho paura di lui - certo, ha paura del coniglio.

Non aspetto più, non voglio aspettare più: la prendo in braccio e fuggo via con lei, tra i rami e le spine del bosco. Corro, corro. Non mi fermerò. Non mi fermerò fino al mattino.



domenica 13 ottobre 2013

quando finisce una storia

Quando finisce una storia rimango attonita, sperduta nella mia casa, popolata eppure muta.
Dove vanno tutti quei pensieri strani? Dove andate voi, amici che mi sussurrate le vostre avventure mentre la mia mano si muove veloce sul foglio. Dove ve ne andate maledetti, non potete lasciarmi così. Svuotata e ancora vibrante.
Dove vanno i vostri pensieri, imprigionati sulla carta e che solo io conosco, solo io.
Tornate da me, amate presenze, parlatemi ancora di quei giorni assolati, l'autunno può aspettare.
Forse, ancora, l'autunno può aspettare.





martedì 1 ottobre 2013

La stanza di Rowena

 
Rowena cuciva tutta la notte... Quello sapeva fare. Si sedeva vicino al camino e abilmente muoveva le dita e i fili di cotone colorati. Rammendava le stoffe preziose dei cortigiani e dei loro familiari. Rowena veniva dalla steppa. La sua casa, lo ricordava con precisione, aveva pareti blu stinte e persiane di legno verde scrostato. Nei pomeriggi d’estate, se la guardavi controluce, quella vecchia cascina pareva una foglia e gli alberi del cortile fremevano coi loro rami d’argento. Ma c’era stata la guerra e la fame... Anche Rowena era partita verso sud, come le sue sorelle.
    Lavorava di notte per far trovare pronti gli abiti il giorno successivo, all’alba. Ed io, talvolta, sgusciavo via dalla mia stanza silenziosa per guardarla imbastire gli orli nella luce calda del fuoco. Rowena era felice che io rimanessi lì a farle compagnia, si vedeva dal suo sguardo... Aveva gli occhi grigi che però, in certi momenti, rivelavano un luccicare d’oro.



    Io, in fondo, chi ero per lei? Il figlio viziato di un capo. Avevo i capelli morbidi, pettinati da mà, le mani bianche di chi ha sfiorato soltanto libri. Mi vergognavo di questo e così mi sedevo per terra, in ombra, e fissavo con estrema dolcezza le sue mani che, invece, erano vive e portavano tutti i segni del tempo. Rowena aveva mani scure, con le unghie corte e le dita forti, con pieghe di terra. Parlava poco, non sapeva bene la nostra lingua, ma talvolta cantava, mentre intrecciava velocemente fili bianchi che diventavano merletti, ricami di neve. La sua voce era un po’ stonata, per la verità, ma riusciva a farmi viaggiare con la mente. Io chiudevo gli occhi e vedevo la brina che copriva l’erba secca della steppa, vedevo un uomo nell’orto con una vanga e sentivo un vento freddo ululare nella landa. Poi mi riscuotevo e Rowena mi sorrideva. 


 


- Tu dormi? - mi chiedeva con un accento acuto e gaio (ma scorgevo una goccia d’acqua vicino al suo occhio).



- No - rispondevo arrossendo. Volevo baciarle quella mano piena di croci, ma non mi osavo. Perchè Rowena era più grande di me e aveva vissuto tanto più di me. Le guardavo per ore i capelli rossi, bruciati sulle punte. Mi ricordavano qualcosa che avevo perduto. Il fieno, forse, o le stoppie gialle del grano, o il sole rosso al tramonto, come un ragno di luce all’orizzonte. Ma non potevo dirle tutto questo, perchè lei si sarebbe offesa. E mi avrebbe detto - Tu?! Tu invidi me? - Quando lei aveva visto la guerra ed io, invece, l’avevo soltanto studiata o l’avevo guardata in televisione. La televisione era piena d’acqua. Se l’accendevi vedevi la morte dei pesci. Per questo non mi piaceva e mi rifugiavo nella stanza di Rowena, dai capelli crespi.



Lei, una notte in cui pioveva forte, mi confidò un suo segreto.
- Vorrei cucire così bene! - e si morse il labbro inferiore, bianco e screpolato.
- Vorrei costruire una città con la mia lana - asserì infine, guardandomi con gli occhi dorati, seriamente.
- Una città? -
Con una certa fatica mi spiegò il suo sogno: avrebbe voluto cucire case, alberi, palazzi di cotone e stoffe brillanti, imbastire una città viva, nella sua piccola stanza; una città costruita con l’amore e la pazienza.



Un paese di lana senza dolore.



- Nelle case di lana non si ha freddo - mi disse. Ma poi finì col sorridere alla mia faccia stupita. I suoi denti erano gialli e, in realtà, mi parve molto triste. Quel suo sguardo incomprensibile per me, allegro e feroce allo stesso tempo, mi spaventò.



Per qualche giorno non andai più da lei... Eppure non riuscivo ad ignorare la nostra sarta dell’est, a dimenticare la sua presenza.
Mi annoiavo in quei pomeriggi densi di nuvole. Per lo più guardavo il cielo dalle larghe finestre del salone. C’erano nubi enormi, draghi d’aria, bianchi e pieni di veli. Li fissavo con un po’ di preoccupazione, li vedevo crescere e trasformarsi, mentre i grandi stavano davanti alla TV, ignari di quell’inferno.
Nessuno parlava mai di Rowena e io soffrivo della sua mancanza. Papà e gli zii discutevano della guerra, eppure nessuno di loro aveva mai combattuto. Loro stavano ore davanti allo schermo acquatico, ma avevano mani bianche e molli come le mie.
- Sono mani colpevoli - pensai e mi veniva da piangere.



Quella notte stessa allora (era la terza senza di lei) fuggii dalla mia stanza tetra, dai mobili scuri ed enormi, e bussai alla porta dello sgabuzzino di Rowena.
- Chi è? - fece lei con una voce soffocata, pareva, da uno straccio.
- Sono io! - sussurrai. Il cuore mi batteva fortissimo e le gambe sembravano due tronchi di legno.


    Aprì e mi sorrise, ma i suoi occhi erano umidi e rosa.



 


- Oh, Jona, sono contenta di vederti - si passò velocemente un dito sotto le ciglia chiare e bagnate.

- Ti aspettavo… Guarda Jona - mormorò conducendomi vicino al camino. Sotto una vecchia sedia, nascoste da una pila di stracci e frammenti di stoffa, c’erano tre piccole case ricamate, cucite l’una vicina all’altra. Una di queste era blu, con le finestre verdi, come la sua cascina d’infanzia.
- Non scherzavi allora! - esclamai afferrandole, per la prima volta, una mano, rossa e umida come un cucciolo di coniglio appena nato.
- No - disse lei - e ne cucirò tante altre - spiegò lentamente. Io mi ero ipnotizzato guardando le sue labbra, dalla curva rosa, di petalo. E le scintille del camino erano stelle, quella notte, nella stanza di Rowena.
 

 

venerdì 27 settembre 2013

il pifferaio

C'era una volta un paese strano, ricco di frutti, baciato dal sole, amato dal vento. Era il paese Senza Nome, aveva infatti dimenticato ogni cosa del suo passato. Nel paese Senza Nome gli uomini pensavano di non poter cambiare le cose, osservavano distrattamente gli schermi dei loro pc o del televisore, vedevano i loro re sprofondare negli errori, ma credevano che non ci fosse nulla per evitare quel declino. Il paese Senza Nome fu invaso dalla nebbia, tutti rimasero chiusi in casa, sospettosi. La nebbia era dentro di loro, ma loro non lo sapevano. Rimasero prigionieri di loro stessi, inconsapevoli e stanchi. Attendevano il pifferaio magico, lui avrebbe portato via tutto quel bianco e li avrebbe liberati per sempre.
Ma il pifferaio era solo un vecchio venditore di pentole, erano loro che dovevano uscire, affrontare l'incerto, riprendersi le città abbagliate dal nulla.



martedì 24 settembre 2013

"La memoria degli alberi" su Nuovo Progetto

 
E' uscita una piccola recensione del mio libro su NP, Nuovo Progetto, il mensile del Sermig.
La curatrice della rubrica BOOKS mi ha dato 4 stellette! Peter Orner con Un solo tipo di vento, casa editrice Minimum Fax ne ha solo 3 e anche David Whitehouse con Buon compleanno Malcom...
Fatemi un po' gongolare, dai :)
 

NP, agosto-settembre 2013

http://giovanipace.sermig.org/index.php?option=com_wrapper&view=wrapper&Itemid=1027&lang=it

giovedì 19 settembre 2013

canzone per il ritorno

Ho corso per giorni,
attraversato deserti e scavalcato pozzanghere di sangue,
ho scalato ghiacciai senza alcuna speranza di rivederti,
eppure tu c'eri,
eri nei miei occhi asciutti,
eri nelle pietre lisce,
eri nelle cascate
limpide all'orizzonte.

Che cosa vuoi sapere di me,
sono uno stanco condottiero
che ha perso tutte le battaglie.
Ascoltami ti prego,
ho solo da imparare da tutto questo,
insegnami,
prendi le miei mani e riplasmami,
rinascerò con te,
e non piangerò,
non piangerò più.





domenica 15 settembre 2013

Non c'è più tempo

Non c'è più tempo per respirare
ora mi accorgo che fa male.
Le statue non possono raccontare
le storie di chi se ne è andato.
Eppure vorrebbero. Gli occhi ciechi, il desiderio bloccato per sempre.
Il cielo è una terra deserta, ghiacciata, sterminata.
Anche camminare non basta.
Presto pioverà.

 
 
 
 

lunedì 9 settembre 2013

presentazione alla Feltrinelli di Torino


Martedì 17 settembre ore 18,30

Presentazione del libro La memoria degli alberi

di Alice Corsi



Libreria Feltrinelli, Stazione di Porta Nuova, Torino.

Insieme all'autrice interverrà Mario Capello, docente ed editor della Scuola Holden.




Mario Capello ha saputo individuare elementi fondamentali di questo libro, elementi che, ora, sono chiari anche a me. La natura e l'infanzia, fuse in uno spazio mitico, la frattura di questo connubio, la riscoperta lenta del prodigio della vita. E poi la dimensione della fiaba, presente nel romanzo, e tutte le microstorie che ruotano attorno alla vicenda principale. Mario ha sottolineato infatti, l'importanza dei personaggi minori, personaggi che non sono soltanto macchiette, ma che, in pochi tratti, si rivelano al lettore e lasciano intuire altre storie, altri universi in cui loro sono i protagonisti. 
Ringrazio Mario perché ha accettato di presentare il mio libro e perché è riuscito a rendere più chiaro e luminoso il mio percorso narrativo.



 Foto di Federica Gaydou


mercoledì 4 settembre 2013

il paese dei perdenti



Il paese dei perdenti è una terra amena, ricca di cultura e tradizione. In quel paese però si è persa la dignità dei padri, si insegue il mito del denaro, dimenticando tutte le epiche battaglie per la verità.
E' un paese potente, ma minato dalla corruzione, che ha abbandonato persino l'idea di cambiare.

Lì governa un re che ha il potere delle televisioni, malgrado i suoi vizi e le sue continue menzogne il popolo lo ama, perdonandogli ogni eccesso.
Anche l'opposizione si è messa d'accordo con il re e tutto continua uguale da sempre, nei secoli dei secoli. E' uno strano paese il mio, una terra senza più favole ed eroi. E noi neanche ce ne accorgiamo più.

 
 
 
 
 

mercoledì 28 agosto 2013

in the mirror




 (Foto Martha Micali)



Il cielo incastrato nello specchio, le nuvole veloci, come tutti i suoi giorni. Istanti d'infinito riflessi sulle mani.

C'è una storia scritta sulla mia pelle, incisa nel palmo, un solco leggero.

Sono nata una mattina d'inizio autunno, le foglie dorate, non facevano rumore mentre morivano.
Io piangevo tra le braccia di mia madre, lei aveva una lacrima verde vicino all'occhio sinistro, resina. Lei, grande quercia, respirava piano e io non avevo paura.

Ho calpestato l'erba con i miei piccoli piedi nudi, mio padre sorrideva, in controluce il suo corpo, alto, nero come le foreste. - Brava Sabine, brava piccola mia -

La pioggia ad agosto, gli acquazzoni della mia adolescenza. Il mio corpo come una pianta giovane e inesperta alla ricerca del sole. Dove sei?
Ti ho cercato nella città, nei negozi bianchi, accecati da una luce troppo forte, ti ho cercato nelle vie deserte e immobili. Le statue tacevano, enormi e altere.

Infine un inverno ti ho trovato. Eri diverso da tutti, eri l'acqua del ruscello in piena, eri il sole crudele a mezzogiorno, spietato nella tua forza e nel tuo bagliore.

Annegai con te mille volte. Tu vedevi in me la quiete dell'alba, io vedevo l'orrore esaltante del precipizio. Ci facemmo del male ripetutamente. Il mio corpo conserva le tracce del tuo disprezzo. E poi l'incidente. In un istante la mia vita capovolta, io sono un frammento di me.

 Foto Martha Micali



Un giorno scoprirò il segreto dello specchio, vedrò i corridoi nascosti e le scale, in penombra dentro il vetro. Vedrò la via, il varco impossibile e allora capirò.

Sabine allo specchio raccontava le sue storie bugiarde, le sue gambe ferme per sempre dopo la caduta, dopo lo schianto. Eppure a volte le sembrava di poter ancora sentire la terra sotto di lei, sotto i suoi piedi. Le sembrava di poter ancora correre, come una pazza felice, per le strade sconvolte dal sole. E se si concentrava sul serio ci riusciva. Era lì, il cielo devastato dal vento, lei apriva le braccia. Sapeva volare.



martedì 20 agosto 2013

Ice


“L’amore spesso può far cambiare natura!” spiegò la triglia al granchio, sul banco del mercato. “Se non ci credi ascolta questa storia...”


 

- Ginevra - le sue labbra pronunciavano quel nome lentamente, come se si perdessero in una cantilena antica.

- Ginevra era tutta la mia vita - concluse Lancillotto guardando il vecchio cinese dal largo cappello di paglia.

Il vecchio non dava alcun cenno d’intendere le parole di quel ragazzo dai capelli folti e ispidi, quasi fossero vivi, che lo fissava al di là del banco. Nevicava ed era notte. Il quartiere orientale però era affollato come sempre e le luci lontane dei neon parevano lacrime di mare.

  Ziang, così si chiamava il cinese, mescolò i gamberetti rosa nella padella di alluminio; il vapore ne usciva a tratti e quasi sembrava nebbia.

  Lancillotto alzò lo sguardo e Ziang si accorse che aveva del ghiaccio su un sopracciglio, come un ricamo o un arabesco di cristallo.

- Non posso più aspettare! - gridò. Ziang parve svegliarsi di colpo.

- Io la vado a liberare, hai capito? -

 

     Il cammino si apriva lento davanti a lui; la strada era ghiacciata, Arturo, il suo fido destriero, non poteva andare al galoppo. I suoi zoccoli passavano sull’erba ai lati del sentiero e l’erba si spezzava, morta sotto la crosta del gelo.

- Ehi cavaliere! - una voce si intrufolò nel silenzio. Lancillotto si voltò, non si era neanche accorto di quel contadinetto che lo guardava a poca distanza, nel campo deserto.

- Hai per caso bisogno di uno scudiero? - Lancillotto arcuò un sopracciglio. Il ragazzo si avvicinò e si tolse il cappellaccio umilmente, gli usciva il fumo dalla bocca.

- Io sono Ser, detto Pin, ed ho sempre sognato di combattere, di andarmene via di qua, da questa terra sterile e morta... E so usare comunque un po’ tutte le armi sa! E poi sono del luogo e ti potrò aiutare! Conosco un mucchio di scorciatoie! - Lancillotto lo squadrò: Ser era vestito di stracci ed era molto magrolino, ma aveva gli occhi ingenui, neri come la terra bagnata e poi il cavaliere aveva così voglia di raccontare a qualcuno la sua avventura che lentamente annuì.

 
 Pin di Valerio Basili


  Ser, detto Pin, aveva un vecchio motoveicolo arrugginito, pieno di leve, molle, ammortizzatori che a spirale s’incastravano tra di loro, e poi due tubi di scappamento enormi. Non si sapeva, per la verità, come facesse a procedere con un simile marchingegno, ma in quell’epoca la meccanica, l’elettronica, la chimica, sapientemente utilizzate, facevano prodigi... Il ragazzo infatti, prima di partire, aveva fatto cadere qualche goccia verdognola e densa nel motore. - E’ la linfa! - grugnì sorridente e così il cavaliere si accorse che aveva tutti i denti neri, marci.

 

- Conosci Ginevra? - chiese Lancillotto, mentre procedevano. Questi scosse il capo energicamente.

- E’ la donna più bella della terra, ma non è mia moglie, è moglie di un altro... Di un uomo potente...-  Pin lo fissava e pareva assorto in quei suoi occhioni umidi. Il cavaliere era già innamorato. Pin sospirò perché era una ragazzina e il cavaliere non se n’era neanche accorto. 

  La Gorra era la fortezza più inespugnabile dell’Est. Le torri s’innalzavano nere, attraversate da vene di acciaio puro, i bastioni si ergevano sullo strapiombo, dove nuotavano, in un largo fossato, gli alligatori.

  Ginevra era appoggiata alla finestra e con le mani lunghe e pallidissime toccava nervosamente le inferriate, nere anch’esse e contorte come rovi fossilizzati. Sbuffava e poi faceva freddo in quel palazzo! Andava ad attaccarsi al termosifone che era sempre tiepido... Ma continuava a sbuffare. Non capitava mai niente lì. E sognava la città, con le sue vie piene di traffico, di fumi, di persone diverse, di odori speziati, forti. Ginevra aveva 17 anni, ma sembrava ancora più piccola; aveva il naso minuscolo, le labbra capricciose, le sue sopracciglia erano come ricami arcuati castani. E i suoi capelli erano lunghissimi, avvolti in decine di trecce scure. Si guardava in uno specchio coi bordi percorsi da venature verdi, segni di frattura, e con un rossetto rosso sangue tracciava contorni sbagliati alla sua bocca. Improvvisamente lo morse e lo sputò.

- Sembra un dito tagliato! - si diceva da sola e rideva, rideva molto sguaiata con quel moncherino di rossetto che sbavava sangue sul ripiano, anch’esso fatto di cristallo. E s’incantava... I suoi occhi si fissavano su quell’immagine e sfocavano tutti i contorni delle cose.

 
 

  Rivedeva così Tristania, la grande città, rivedeva i palazzi antichi, con le decorazioni barocche incrostate di nero, rivedeva le finestre enormi, vuote che a tratti si aprivano, con un tonfo sordo di vetri. E rivedeva ancora una volta lui nei bassifondi, mentre sorseggiava un whisky e la guardava. Ginevra non aveva mai visto uno sguardo simile. Fu presa quasi da un raptus per quel ricordo, la sua faccia si raggrinzì, le sue mani si chiusero nervosamente. Le unghie nel palmo facevano un po’ male. Doveva risentire tutta la storia e del resto, per lei ora, non c’era altro che quello. Si rilassò e iniziò a raccontare tutto allo specchio.


 
- Pioveva - bisbigliò con la sua voce acuta - ed ero scappata un’altra volta da casa. Mi ero messa i tacchi alti e una parrucca arancione perché avevo voglia di apparire più  bella di com’ero in realtà e poi, comunque, mi cercavo e non sapevo quale fosse la mia identità. Rivedo i miei stivaletti di velluto marrone sul marciapiede lucido di acqua e risento i miei passi... Avevo voglia di trasgredire, osservavo le pareti annerite dai fumi, cercavo luci nelle case, musica, parole e voci, rincorrevo golosa ogni forma di vita. E finalmente avevo scorto una porta illuminata di azzurro-acqua che mostrava una scala in discesa. I gradini erano di pietra, sembravano scavati nel tufo di qualche vulcano sotterraneo. Là sotto c’era un locale con poche persone, qualcuno ai tavoli, qualcun altro al bancone.

 - Dove mi trovo? - mi dicevo ed ero elettrizzata. Un uomo di colore suonava il sax su un palchetto ed io osservavo il suo strumento e quasi mi sentivo diventare musica. Ma poi... - e qui Ginevra si fermò per un istante - Poi un qualcosa mi turbò, mi voltai a destra, lentamente e vidi un ragazzo dai capelli folti e scuri che mi fissava. I suoi occhi erano come smarriti, incerti, eppure taglienti. I suoi occhi parevano ora solchi, ora pupille nere di corvo. Di fianco a lui c’era un altro uomo, più robusto, col volto squadrato: anch’egli mi guardava, ma in modo scettico, scuotendo il capo e tirandogli gomitate. Io so cosa gli diceva - Lasciala perdere! Non vedi che è una bambina! -

  Ma egli ormai era perduto... - sussurrò la ragazza e la sua voce quasi parve annegare nella sua gola. Tirò indietro la testa e socchiuse gli occhi... Rivide Lancillotto che posava la pesante spada di fianco a Parsifal e si muoveva verso di lei.

- Ne vuoi - disse porgendole il suo bicchiere.

Lei annuì e bevve tutto il suo whisky, di colpo, e poi lo guardò sfrontata.

 
 Lancillotto di Valerio Basili


- Lui è stato, per me, l’errore - spiegò allo specchio Ginevra, ed il suo occhio sinistro parve un opale incastonato nel suo viso, umido.

 

- La nostra storia era sbagliata in partenza - spiegò Lancillotto al suo scudiero, mentre tentavano di accendere il fuoco per la notte - E l’avevo capito subito... Anche quella prima sera, nella Città Vecchia... Perché aveva sul viso un segno trasversale, come l’impronta di un artiglio: sentii che era, a me, proibita. Ma quella notte non capitò nulla tra noi... Parlammo poco e ci osservammo a lungo, attraverso quelle luci incerte. Ti sembrerà strano Ser, ma io sapevo che l’avrei rivista. -

  La voce del cavaliere era calda e conservava in sé un’intonazione epica. Pin lo guardava attraverso la fiamma: lui era un’immagine scura e dietro, un pruno dai rami contorti e neri era come la ramificazione dei suoi capelli. Pin rabbrividì.

- La rividi a casa del suo nuovo marito: ovvero del mio padrone - e qui il suo parlare divenne per un istante stonato.

- No! - mormorò Pin.

- Ginevra scendeva lentamente le scale del suo appartamento, molti non avrebbero di certo visto in lei la ragazzina dalla parrucca rossa, ma io sì...

Aveva un abito attillato, viola e verde con scaglie di serpente, e i suoi capelli erano scuri, avvolti in un complicato fermaglio di pietre dure.

Il Signore stava seduto al suo tavolo di marmo nero e batteva col dito medio il piano. Lei seguiva il suo ritmo, mentre faceva quegli scalini. Avevo sempre venerato quell’uomo: in quel momento invece mi accorsi che l’odiavo. E odiavo quel suo anello di platino che, come una serpe, stringeva il suo dito più lungo, rosso e grasso.

Ginevra, quando si fu avvicinata a me, incominciò a balbettare e i suoi occhi si riempirono di ombre e luci che si muovevano. –

  Pin si era così immedesimata nel racconto che non sentiva quasi più freddo. Il piccolo focolare che era riuscita ad accendere era un misero bagliore rosso nella notte, ma ecco che, ascoltando Lancillotto, quella modesta luce si allargò e Pin vide la stanza illuminata a candele del re e della regina, scorse il riverbero delle squame sul corpo di lei e il suo viso, minuto sotto quella massa di capelli e sassolini rocciosi.

- Fu una cena terribile per me! – mormorò lui  – c’erano tutti i cavalieri, tutti attorno alla grande tavola nera, ed io, poco distante da lei, guardavo il piatto con i calamari annegati in un sugo di muschio, pieno di conchiglie vuote che si riempivano di gocce verdi e sentivo che anche i miei occhi erano umidi… Non dissi una parola, e lei neppure. Così: circondata dal chiasso dei discorsi altrui in un istante lei si alzò e mormorò soltanto – Con permesso –

 La seguii dopo qualche momento spiegando che dovevo andare in bagno; uscii dal salone dove le ombre parevano liquide e in un anfratto, al buio, la vidi.  –Ssst – fece lei.    Io mi nascosi nella sua tana mentre lei si toccava nervosamente i capelli. Staccava dalla sua criniera le pietre verdi e poi le guardava con gli occhi vivi pieni di riflessi e pagliuzze d’oro. La mia mano sfiorò la sua gemma più grossa. Lei rabbrividì. Io allora la strinsi più forte, fino a che le sue asperità mi fecero male. A Ginevra pareva mancasse il respiro.

– Ma – fece Ser, corrugando la fronte scura.

- Così non vi siete mai baciati!? –

Lancillotto sorrise – Certo… Da allora diventammo amanti –

- E il tuo padrone? –

  Il cavaliere gettò un sasso nel fuoco con ira e Pin si impaurì vedendo volare mille scintille nell’aria. – Ricordati – ringhiò Lancillotto con una voce sotterranea, che non pareva neanche sua  – che io non ho padroni! –

 

 

  Lancillotto e il suo scudiero procedettero per giorni e giorni, attraverso sentieri tra i campi grigi, foreste dagli alberi morti e piccole città… Ognuno di questi paesi assomigliava a Tristania: qua e là un orologio antico, una piazza, un palazzo, richiamavano dolorosamente la metropoli, quasi fossero un riflesso di essa in uno specchio opaco. Il cavaliere ogni tanto s’incantava nel fissare un qualche particolare, ma poi subito si scuoteva e spronava Arturo.

  Lancillotto era diventato sempre più silenzioso e Pin, smaniosa di vivere, talvolta si annoiava anche con lui, come coi suoi fratelli quando andava nelle campagne, per il raccolto. Eppure non riusciva a lasciarlo andare per conto suo… Si rendeva conto, ora dopo ora, che anche il suo silenzio o i suoi modi bruschi da cane rognoso, le erano diventati unici e indispensabili.

 

- Arturo! – gridò una mattina Lancillotto.

- Che hai! –

Pin si voltò e si accorse che il cavaliere era indietro.  Il cavallo era bloccato. Lancillotto scese e provò a tirarlo dal muso. La nebbia si addensava e, qua e là, emergevano dal bianco di perla rami di meli selvatici. Pin si avvicinò e vide il volto di Lancillotto indurito e più scuro come una corteccia.

- Cos’è successo? – gridò con la sua voce da gazza.

Il giovane alzò semplicemente la palpebra ad Arturo, ma l’occhio era solo più una sfera bianca, asciutta.

Agitato allora diede un calcio al ventre del destriero.  - No! – gracchiò Pin mentre dalla pancia usciva un filo di olio tiepido.

 

     Ser con i suoi guanti rotti, da cui sbucavano le dita, provò a svitare i bulloni che chiudevano il ventre maculato, ma all’interno gli ingranaggi erano corrosi e una patina di gelo aveva fossilizzato i vasi sanguigni e il cuore che sembrava, a quel punto, una prugna seccata in una ragnatela di neve.

 

- Aiutami a scavargli una tomba – sussurrò Lancillotto- E poi vai via, sii libera e non tornare indietro, se non ti va – Pin allargò i suoi occhioni neri, le sue labbra tutte screpolate dal freddo, rimasero storte per un istante. Lui alzò lo sguardo e le sorrise piano.

Si alzava la tormenta quando i due ebbero terminato di seppellire Arturo. Fiocchi di neve vorticavano in gorghi concentrici e anche gli alberi sembravano ormai solo più carcasse legnose.

- E’ distante la Gorra? – fece Ser.

- No… - mormorò il cavaliere

- Be’ allora voglio venirci anch’io! – protestò lo scudiero con un’espressione da scoiattolo.

Ripartirono solo più con la vecchia moto di Pin, tutta molle e bulloni e, anche se ormai era quasi notte, non si fermarono.

 
 Ginevra di Valerio Basili


     Il potente Artù aveva indetto un ricevimento per quella sera, erano stati invitati tutti i combattenti eccetto Lancillotto. Si sarebbero anche presentati i funzionari e gli addetti ai servizi speciali. Nel castello quel giorno, quindi, c’era fermento: le serve lucidavano il grande pavimento della sala, i cuochi erano già tra le pentole ribollenti, i camerieri andavano di qua e di là, agitatissimi.

  Il re era nella sua stanza semibuia davanti al suo schermo televisivo incassato in una parete di lava nera. Le tende di velluto erano abbassate e lui si toccava nervosamente il suo anello: un serpente di platino che soffocava il suo dito medio, ma no, non poteva toglierselo. La serpe aveva in bocca una pietra nera senza riflessi.

- Ginevra – la chiamò lui, con una voce rauca

- Perché non vieni un po’ qui con me? Cambiamo programma se ti va –

Lei spuntò da dietro le tende, con una mossa agitata, e si avvicinò a suo marito: sembrava sua figlia tanto era minuta. Aveva la vestaglia di broccato rosso scuro e si era truccata, di nuovo, in modo pesante. Del rimmel le colava persino un po’ sulla guancia. Lei gli accarezzò la folta barba con gesti rapidi e sgraziati, lui allora, deluso, la spinse via facendola cadere per terra, sul tappeto persiano.

C’era un arabesco blu cobalto su fondo rosso, Ginevra lo fissò a lungo dicendo a sé “dormi bambina dormi …Non pensare a niente…Dormi e ti ritrovi pura come il mattino di perla” ma appena chiuse gli occhi, pianse.

 

Quando Lancillotto entrò nella sala illuminata, con a fianco un ragazzo di campagna tutto stracciato, molte voci si zittirono e gli sguardi andarono al padrone del castello seduto in un angolo buio. Ma egli non disse nulla. Ginevra era nascosta sotto il tavolo, non si sa per quale strano motivo, e quando udì quel silenzio improvviso sbucò da sotto la tovaglia smerlata, con il cuore che le batteva fortissimo.

- Non penserete - tuonò ad un tratto la voce di Artù - Lancillotto di presentarvi qui stasera, senza che io mi ritenga offeso - Pin rabbrividì e per un istante le parve che  i presenti avessero addosso veli spessi di ragnatele. Lancillotto aveva rughe più profonde vicino agli occhi.

- Immagino che voi siate qui per duellare - continuò stancamente Artù.

La musica venne alzata di volume: era un ritmo elettronico cadenzato, i paladini si guardarono tra loro, a disagio, Pin fissava sgomenta lo stemma della Gorra: un viso enorme di gatto attaccato in mezzo alla parete centrale, i cui occhi di ambra vibravano alla luce azzurra dei fari.

- Combatterete con la mia nuova creatura - spiegò il Re prendendo un telecomando che aveva in tasca.

 

Dalla scalinata di pietra scendeva a passi lenti un cavaliere con un’armatura porosa che pareva fatta di pomice.

- No... No....No... - gridò come una bambina Ginevra, camminando a quattro zampe verso Lancillotto e lui solo allora la vide! La fissò e i suoi occhi sembravano incrostati di resina.

- Portate via la regina! - ruggì Artù, alzandosi dal suo trono e quattro servitori la presero di peso mentre lei si divincolava come una tarantola aliena, dai tessuti d’oro che frusciavano e si strappavano qua e là.

Lancillotto allora, sguainò la sua vecchia spada e si lanciò contro al cavaliere senza nome, urlando come un pazzo.

 

  Il combattente del re era molto abile e poi la sua spada mandava bagliori azzurrognoli come onde marine nel piombo, ogni volta che era colpita; ciò stregava quasi l’avversario.   Ser era accucciata in un angolo della sala e tremava, i paladini erano preoccupati, Parsifal intimava al re di essere clemente col suo ex amico.

- E sia! - esclamò ad un tratto Artù e l’unica cosa che si vide fu la sua mano grande, squadrata con l’anello nero. Il cavaliere di pomice si bloccò, ma Lancillotto era ancora preso dal suo slancio e così gli mozzò la testa.

- Colpo scorretto - si udì da più voci - colpo scorretto! -

L’elmo era rotolato per qualche metro e aprendosi aveva mostrato un volto di donna con fili d’argento che le partivano dalle orecchie: era una copia di Ginevra. - Cos’ho fatto mio Dio! - pensò Lancillotto che non riusciva più a collegare le cose. Ma la testa tagliata, con l’elmo roccioso, aveva cavi e conduttori elettrici che le uscivano dal collo... E poi una patina di liquido scuro, denso, che si allargava sul pavimento lucidato a specchio.

 

  Pin trascinava il suo motoveicolo nella nebbia. Lancillotto la seguiva lento, a passi pesanti. Pin pensò che egli dovesse avere allucinazioni, perché talvolta s’illuminava  trasaliva o si voltava di colpo. Ma, ad un tratto, fu lei a gridare, spaventata, e per poco non fece cadere la sua moto. A pochi passi da loro, sul bordo del sentiero innevato, c’era una statua di ghiaccio a grandezza naturale, piena di cristalli verdi e grigi come vetro. Era Ginevra, bella come un insetto dentro l’ambra.

“Io ho seguito i tuoi sospiri.
                                  Ho visto i fiocchi farsi merletto
                                    la neve farsi lacrime
                               Io ti ho inseguito per tutte le strade
                                 cercato in ogni ruscello
                                 in ogni riva e anfratto
                                             Ma tu
                                              eco
                                ti sei perso nelle grotte cave.”

 

Lei gli disse coi suoi occhi che parevano sciogliersi in rugiada.

- No - bisbigliò lui - non è morta - e i suoi capelli erano mossi dal vento.  Pin era incantata davanti alla bellezza di quella fata ghiacciata e non sapeva se crederci. Si sfregava gli occhi. Del muco le usciva un po’ dal naso. Ma poi udì come una musica.

                               

“L’arabesco cobalto su fondo rosso”

 

e s’impaurì, indietreggiando di qualche passo.

Lui invece non si spostava ed anzi sfiorava con un dito le labbra bianche di lei, al di là delle vene azzurrine di ghiaccio.

    
 Tristania. La città vecchia era un pullulare di voci sommesse. Il piovischio imperlava le bancarelle sparse, le cupole delle moschee, i cappelli a larghe falde dei cinesi... Ziang rimescolava assorto il suo pentolone d’alluminio. Era riso al curry e il vapore si alzava in fumi densi. Un esserino magro e stracciato gli si avvicinò. Aveva gli occhi incrostati di secrezioni verdi, doveva avere una pessima congiuntivite.

- Cerco Ziang! - esclamò il ragazzo.

L’orientale annuì.

- Sono Ser - piagnucolò l’altro - conoscete Lancillotto, vero? -

L’odore di spezie era fortissimo e una triglia fissava curiosa, con la sua bocca ramata aperta, Pin.

- E’ rimasto solo questo del cavaliere! - gridò quasi Ser e porse al vecchio cinese un lastrone di ghiaccio con dentro un ramo di melo selvatico, come una vena o un lampo.  Ziang allargò le sue pupille socchiuse.

- e questo di Ginevra - mormorò Pin, mostrandogli un’altra lastra trasparente con all’interno un grumo scuro di capelli attorno ad una pietruzza rocciosa.

Pin piangeva e non riusciva a smettere, guardando la triglia con le sue squame lucenti e il viso rugoso dell’anziano.

 

                                  

  La cattedrale di Tristania era minuta e scura, nascosta quasi tra i palazzi barocchi pieni di angeli anneriti e dalle ali enormi e pesanti. Il rosone centrale da tempo era rotto: mancavano due pezzi che non si riusciva ad inserire e non se ne capiva il motivo. Un giorno un pezzente di campagna portò due lastre ghiacciate da chi sa dove; combaciavano e il ferro battuto le inglobava perfettamente. Talvolta, alzando gli occhi si potevano distinguere perché due masse si muovevano al loro interno e tentavano di avvicinarsi l’uno all’altra. Per sempre divise, per sempre vicine.